– di Giacomo Daneluzzo –
Tornando a Dreamcore: secondo me è un disco fuori dal tempo e dallo spazio. È così?
Di brutto.
A questo proposito, per quanto riguarda lo spazio ho notato che tutti i titoli non sono in italiano – tranne Linea blu – e che in tutti i testi ci sono molti nomi e riferimenti di altri luoghi, come Bunny Boy e Bunny Girl.
Be’, loro vengono da Harmony Korine [dal film Gummo, nda]. Sull’essere fuori dallo spazio questo è un disco un po’ metafisico. Dreamcore è l’unione di più cose: abbiamo tanti punti di riferimento artistici, sia cinematografici che letterari. E naturalmente musicali. Noi attualmente siamo nel genere/sottogenere della dreamwave. Ci piacciono tanto gli artisti dream, i gruppi dream pop. I nostri capisaldi sono i Beach House, i Cocteau Twins e Ariel Pink. Tutte persone che hanno in qualche modo a che fare con l’ipnagogico.
Tra l’altro la parola “ipnagogico” oltre a riferirsi a questo genere è una parola che viene dal greco antico e che evoca il sonno e il sogno: viene da ὕπνος – hýpnos – che significa “sonno”.
L’ipnagogico rimanda al pre-veglia, una sorta di contatto con la morte che si ha prima di dormire. Sto leggendo Haruki Murakami, che mi piace un sacco. Sono un suo grande fan, ne apprezzo la spiritualità unita a un lato “deviato” o psicomagico, per citare Jodorowsky.
Che cos’è il sogno? Che cos’è la dimensione onirica? È una realtà, sì, ma allo stesso tempo non lo è. In questa dimensione proietti te stesso. È reale ma non è reale allo stesso tempo. Nel film Picnic at Hanging Rock c’è un’introduzione che dice: «La vita è un sogno, nient’altro che un sogno. Il sogno di un sogno».
Abbiamo parlato dello spazio, mentre per quanto riguarda il tempo Dreamcore è un disco abbastanza breve, veloce: come mai?
È un disco impressionista, a sprazzi. È d’impatto, senza intro e outro, senza intermezzi. Eppure è un po’ come quel pezzo di Buddy Holly, Everyday, che dura due minuti ma sembra molto più lungo. La musica ha questo potere di distorcere il tempo. Dreamcore vuole essere un disco atemporale.
Tra l’altro anche questa cosa, l’atemporalità, è tipica del sogno.
Sì, nei sogni il tempo non esiste. E l’Officina vive in un tempo che non esiste.
Un’altra cosa che accomuna questo disco all’Antologia della camereretta è la presenza di una voce femminile, quella di Altea.
Sì, bravo! È Altea dei Thru Collected. Un cuore grosso così.
Come mai è lei a fare i cori di Dreamcore?
Al MI AMI durante il soundcheck si è fermata a sentirci. E i Thru Collected hanno fatto una storia Instagram di noi che suonavamo al MI AMI. E io so che alcuni di loro seguivano l’Officina, perché avevamo già conosciuto Altea e Sano l’anno prima. Stavo cercando una voce femminile, quindi mi è venuto naturale scrivere a lei: ho scoperto che era proprio una fan. Le ho chiesto se le andasse di cantare le nostre canzoni nuove… Che entusiasmo! Non so davvero perché. E quindi l’ha fatto.
E com’è andata questa collaborazione?
Bene! Altea è una grande. Ed è anche molto disponibile.
Questa cosa della voce femminile mi è sempre sembrata, fin dai vecchi tempi, un po’ un’eco baustelliana.
Eh… Noi siamo traumatizzati dai Baustelle. In particolare dal Sussidiario [Sussidiario illustrato della giovinezza, il primo album in studio dei Baustelle, uscito nel 2000, nda]. Siamo figli dei Baustelle [Sul momento non ho colto la citazione a Figli delle stelle, nda].
Inoltre è successa una cosa strana. Noi non ci siamo visti e sentiti per un sacco di anni, eppure Stefano ha fatto il videoclip di Charlie fa surf e io poi ho aperto da solista i live di L’amore e la violenza e ho fatto una canzone con Rachele Bastreghi. C’è una sorta di strana inception. O l’Italia è piccola o abbiamo una connection con i Bau.
Quindi dopo I Cani Baustelle speriamo in L’Officina Baustelle.
L’Offi-Bau. Speriamo! Io non credo. Tra dieci anni, magari…
E invece come si arriva dai Baustelle a quello che fate voi? È molto diverso.
Probabilmente è più l’attitudine: anche i Baustelle non rientrano nei canoni della musica pop italiana. Hanno portato a una dimensione “nazional-popolare” un genere musicale che non lo era. Noi siamo groupies dei Baustelle. Per quanto riguarda i testi loro hanno messo in atto un escamotage: delle canzoni musicalmente più accessibili che sono un cavallo di Troia, perché poi dentro ci mettono la frase strana. È forse un po’ quello che faceva Battiato.
Se i Baustelle sono i Pulp italiani noi siamo The Moldy Peaches. Abbiamo anche un percorso molto simile, con un ritorno in voga dopo un bel po’ di anni. Noi continuiamo a fare le nostre cose, ma abbiamo più pubblico, rispetto all’inizio. Se ci penso: it’s not real, it’s a dream.
Io penso che quella di Francesco De Leo sia una scrittura estremamente libera.
Sì, è molto free, molto freak.
Non ci sono schemi precisi di rime e assonanze e anche i registri si alternano: immagini poetiche si alternano a frasi anche aggressive o scurrili. A questo proposito mi ha stupito molto quando in William ho sentito: «Dal mio cazzo esce un fiore».
Ma quella frase l’ho presa dal libro di cui ti parlavo, I ragazzi selvaggi! È un libro super explicit. Tra l’altro è il libro preferito di Ian Curtis e anche David Bowie ha usato quel libro come ispirazione per i costumi di scena di Ziggy Stardust, anzi, Ziggy Dardust. William Burroughs è davvero un autore fondamentale per me.
La scrittura di Francesco secondo me è incredibilmente espressiva: è come se avesse tantissimo da esprimere, un mondo interiore molto intenso. Che cosa di questo mondo cerca di uscire nella scrittura?
Allora, fammi mettere comodo. Non lo so, io ho sempre avuto questo pallino creativo, dello scrivere. Il motivo per cui scrivo è un’esigenza, uno spirito che porto dentro. È un’abitudine che ho sempre avuto, una necessità che col tempo si è evoluta fino a diventare una pratica consapevole.
Penso che sia un’esigenza dettata anche dalla propria vita. Io ho avuto un percorso di vita in cui ho conosciuto molto la solitudine. A quattordici anni ero dentro a una bolla spazio-temporale e sono andato a vivere per un periodo in Francia, perché mia zia vive a Marsiglia e io già andavo da lei ogni estate. È proprio lei la prima persona che ha stimolato la mia indole artistica: lei lavora nel mondo del teatro marionettistico e a Marsiglia negli anni Novanta/Zero c’era una cosa fighissima, La Belle de Mai, che era uno spazio in cui si trovavano i laboratori di molti artisti e da lì è un po’ iniziata la mia attitudine artistica.
Mi sto ricordando in questo momento che all’epoca io ho anche fatto le musiche per degli spettacoli suoi. Le prime musiche le ho fatte in quel contesto, col fidanzato di mia zia, che era francese. Quindi si potrebbe dire che viene da lì. Da mia zia, da Marsiglia, dalla Francia. Vive la France, sempre!
Dopo il sold out delle prime due date a Roma e a Milano, il Dreamcore Club Tour dell’Officina della Camomilla proseguirà con i seguenti live:
- 1° marzo – Brescia – Latteria Molloy
- 2 marzo – Livorno – The Cage
- 8 marzo – Torino – Hiroshima Mon Amour
- 14 marzo – Roma – Monk
- 15 marzo – Caserta – Lizard Club
- 16 marzo – Bologna – Locomotiv Club (sold out)
- 17 marzo – Bologna – Locomotiv Club
- 20 marzo – Milano – Magazzini Generali
- 22 marzo – Roncade (TV) – New Age Club
- 23 marzo – Firenze – Viper Theatre
Biglietti e informazioni disponibili sul sito di BPM Concerti.