– di Giacomo Daneluzzo –
Oggi è uscito per Nufabric Records e Virgin Music LAS (distribuzione Universal Music Italia) il nuovo album di Luca De Santis, in arte Suvari: il titolo è Buh! e, come suggerisce il titolo, è un disco che invita a parlare con i fantasmi, a confrontarcisi e a farci pace. L’album vede alla produzione niente meno che Federico Dragogna de I Ministri alla produzione ed è scritto, composto e arrangiato da Suvari. Il cantautore originario della provincia livornese ha all’attivo un album autoprodotto uscito nel 2018 e intitolato Prove per un incendio e l’EP Di cosa hai paura?, uscito nel 2019 per Nufabric Records. Dopo una lunga pausa, torna sulle scene con l’album della sua maturità artistica, frutto di un percorso artistico e umano fuori dal comune.
Ne ho parlato con lui, che in una lunga videochiamata mi ha raccontato molto di sé, della propria storia e della propria musica.
Ciao! Sei in macchina, dove ti trovi al momento?
Sono uscito dal lavoro, a Perugia.
Non sapevo vivessi a Perugia!
Sì, io sono originario della provincia di Livorno: a diciott’anni sono andato via e ho iniziato a viaggiare per il mondo. Ormai sono di più gli anni che ho passato fuori che quelli in cui ho vissuto a Cecina, la mia città (a proposito di Cecina: c’è di peggio). E alla fine sono finito a Perugia!
Il motivo è questo: vivevo a Roma, dove ho conosciuto quella che poi sarebbe diventata mia moglie, che è di Perugia. A un certo punto ci siamo rotti le scatole delle grandi città e abbiamo iniziato entrambi a cercare lavoro a Livorno e a Perugia: «Il primo che lo trova vince», ci siamo detti. E ho vinto io, perché ho trovato lavoro a Perugia. Mi sono affidato al destino.
Sta per uscire Buh! dopo anni di silenzio discografico: come va, come ti senti?
Ansia! Ho aspettato parecchio tempo per farlo uscire. Quando pubblichi un disco è un pezzo di te che lasci andare. Metto tantissimo di me stesso in quello che faccio: in questo caso sono responsabile di tutto, anche troppo.
Credo che sia un disco importante: è il tuo lavoro più maturo, forse anche da un punto di vista musicale. Che cos’è successo in questi quasi cinque anni? Che cos’è cambiato?
Tutto. È successo… il mondo.
Il primo disco è stato scritto in una situazione in cui ero obbligato a stare fermo, senza neanche uno scopo di condivisione, era più una terapia di scrittura. Io so scrivere solo facendo musica e in quel momento ho capito che mettere insieme quattro note era il modo giusto per farmi terapia, scrivere, sfogare un momento difficile.
A causa della neuropatia ho passato dei mesi completamente paralizzato, sono stato molto tempo in ospedale, ci tornavo continuamente. In quell’occasione ho trovato delle storie di persone che lavorano in ambito creativo che si sono trovate ad affrontare problemi simili al mio. Questo mi ha dato un impulso forte: nelle collezioni di dischi ci sono molte storie drammatiche di persone che hanno scritto le canzoni che tutti canticchiano sotto la doccia. Penso, quindi, che la condivisione di queste storie possa far bene anche agli altri, oltre che a se stesi. Anche per esorcizzare, collegandoci a Buh! con un piccolo salto.
Da quando è uscito Prove per un incendio a oggi è cambiato il mondo, in me e all’esterno. Ho “usato” la musica per viaggiare, abbiamo fatto più di cinquanta date ed è stato bellissimo. E mi ha fatto scoprire la voglia di continuare il progetto, di usare la musica come terapia, come condivisione come sfogo. La musica fa bene. Dal punto di vista della mia vita personale mi sono rimesso in moto, a riprendere i ritmi di un tempo: ho cominciato a lavorare, ho conosciuto mia moglie, ci siamo trasferiti in provincia, abbiamo messo su casa, abbiamo avuto un figlio, il mio piccolino… Quindi è successo di tutto. La voglia di suonare è amplificata, ho ancora più voglia di fare cose. Anche se a volte ho dei momenti tipo: «Basta, chi me lo fa fare?».
Sicuramente ci sono modi diversi di reagire a una situazione difficile. Quello che hai trovato tu secondo me è ammirevole.
Guarda, io penso che ognuno abbia dentro di sé una gabbietta con sopra la scritta: «Rompere in caso di emergenza». Magari puoi pensare che non sia così, perché non lo sai, ma hai un istinto di sopravvivenza. E quando tocchi il fondo, per così dire, ti esce. Io ho sempre pensato che in certe situazioni non ce l’avrei mai fatta. Invece ce l’ho fatta, perché anch’io, come tutti, ho quella cassettina da rompere in caso di emergenza. Non sottovalutiamoci!
Ho letto un’intervista a un illustratore che ha avuto un problema analogo al mio… E un illustratore se non può usare le mani come fa? E nell’intervista diceva che la sua prima preoccupazione è stata che non avrebbe potuto scalare le montagne, fare le camminate fino alle vette, ma che poi ci ha riflettuto e ha realizzato: «Ma a me non piace, non l’ho mai fatto, per tutta la vita! Perché devo focalizzarmi su quello che non posso fare, che magari non avrei neanche mai fatto comunque?». Questo discorso mi è rimasto impresso: è necessario focalizzarsi su ciò che è tuo, che appartiene al tuo mondo. Io ero un chitarrista – anche adesso suono un po’, ma non come prima – ed è doloroso prendere in mano il tuo strumento e non riuscire a suonarlo. Però poi mi sono chiesto quali altre strade avrei potuto percorrere e ho scoperto, per esempio, che grazie alla tecnologia puoi “essere una band”, cioè, puoi suonare tutti gli strumenti con l’aiuto di un computer. Se guardi il problema da un altro punto di vista non è necessariamente un problema. Tutto qui.
Ho fatto anche un percorso di musicoterapia, che è una cosa interessantissima. Attraverso la pressione, il movimento e la percussione aiuti l’impulso nervoso, dal centro alla periferia: magari non riesci a premere il tasto del pianoforte ma “educhi” il movimento. È stato un percorso interessante che ha coinvolto l’uso della voce: da lì si è innescata la voglia di utilizzare la musica per raccontarmi e ho scritto tipo trenta canzoni. Fino ad allora avevo sempre scritto in inglese, non avevo mai scritto delle canzoni in italiano, ma in quel momento ho detto: «Io alla fine sono italiano, scriviamo in italiano» e ho iniziato un dialogo con me stesso nella lingua che conosco. Ho scoperto che la musicoterapia può aiutare a smuovere la memoria delle persone affette da Alzheimer. Bellissimo. Può essere la chiave per molte cose.
Non posso non farti una domanda sulla collaborazione con un “peso massimo” come Federico Dragogna, chitarrista de I Ministri che ha prodotto il disco: che cos’ha apportato al tuo lavoro?
Parlando dei miei pezzi nuovi era già uscito il suo nome con più persone, mi chiedevo con chi avrei potuto fare la produzione e per caso il suo nome è spuntato più volte, con persone diverse. Ne ho parlato con Luca Del Muratore di Locusta, che mi ha detto che era convinto che fosse la persona giusta per me, sia perché sarebbe stato in grado di accompagnarmi nel mio percorso senza “sovrastarmi”, perché spesso con le produzioni fatte da personaggi in vista succede che vogliono che tutto si faccia come hanno in mente loro, e poi per l’aspetto umano, pensava che mi ci sarei trovato benissimo. E così è stato: umanamente è stato fantastico. Abbiamo lavorato molto a distanza, io gli mandavo quello che faceva, lui me lo rimandava indietro con le sue idee e proposte. E poi abbiamo fatto sette giorni di studio per registrare, a tempo record.
In studio io mi alieno totalmente, ci starei tutto il tempo. Un giorno, a cena, gli ho detto: «Senti, mi fai un favore? Possiamo tornare in studio e accendere il microfono? Avrei bisogno di registrare questa canzone» e l’abbiamo fatto. Lo studio è un luna park per me e mi piace ascoltare i musicisti e guardare come fanno le cose.
Prima mi hai detto che il suono è più maturo: questo dipende, probabilmente, dal fatto che tutti gli strumenti fossero suonati: nell’altro disco l’unico strumento suonato davvero era il basso, gli altri erano tutti software (a parte piccole eccezioni), perché volevo riportare l’atmosfera “da cameretta”. Invece in questo caso le demo erano simili alle tracce finali del disco, ma nel momento in cui si aggiunge il fattore umano e gli strumenti sono suonati cambia qualcosa. Anche secondo me suona più maturo, perché ho avuto questa fortuna di lavorare con dei musicisti. Inoltre sentire le chitarre che ho fatto con un software suonate da Dragogna è davvero un onore: le chitarre suonate nel disco sono sue.
Anche se la tua è una scrittura di chiaroscuri, in cui i testi contengono elmetti cupi ma anche una forza reattiva positiva, l’idea di fare pace con i fantasmi è un concetto molto positivo: Buh! è un disco che serve in qualche modo a “curare”?
O vado in terapia o scrivo: queste cose devo tirarle fuori. Scrivo canzoni che ho voglia di ascoltare e a me piace che una canzone si regga sui contrasti: per esempio un ritornello abbastanza allegro, che si può fischiettare, ma in una canzone che allo stesso tempo analizza anche aspetti impegnativi. Questo secondo me è un po’ il mio “marchio di fabbrica”. Un mio amico mi ha detto: «Mi fai sculettare mentre parli di temi pesi» ed è quello che vorrei che ci fosse nei miei brani. I contrasti mi piacciono in primis da ascoltatore, poi anche all’interno del processo di scrittura: il gioco creativo vive di contrasti. Scavo molto nella mia testa e anche quando sono felice e sto bene ci sono fantasmi da esorcizzare, con cui fare pace e imparare a conviverci.
Nella risposta che mi hai dato hai interpretato la mia domanda come se fosse riferita alla cura di te, ma io in realtà pensavo più che altro alla prospettiva di curare chi ascolta il tuo disco. Che cosa ne pensi di questa possibilità?
Ma magari! Mi farebbe tantissimo piacere essere ascoltato in questo modo. Guarda, la musica fa bene. Se io potessi fare del bene tramite la mia musica mi riterrei più che soddisfatto del mio lavoro.
Il tuo EP si chiama Di cosa hai paura e la paura lo collega a Buh!, anzi, forse più della paura l’idea di affrontare la paura, gestirla, esorcizzarla. Sembra essere un tema importante.
Quando parlavo di scavare nella propria mente intendevo qualcosa di vicino all’essere consci delle proprie paure: conoscerle, dare loro un nome, un colore. Questo ti aiuta a conviverci meglio; magari non a superarle – ci sono paure che ti prendono dritto allo stomaco – ma almeno avere le coordinate per gestirle. Io sono una persona molto ansiosa, quindi mi serve molto.
A proposito dell’EP c’è da dire che, complice il COVID, è stato un percorso interrotto. Con Buh! volevo riprendere da dove ci eravamo lasciati.
La riflessione sui fantasmi secondo me porta con sé anche una riflessione sul tempo, sia passato che futuro. Vorrei chiederti che rapporto hai col tempo che scorre, con il passato e con il futuro.
Col passato ho un ottimo rapporto, direi che va tutto benissimo. Il futuro invece un po’ mi spaventa, sì. E anche questo tema è entrato nel disco, perché mi sono ritrovato a riflettere molto sul futuro. A noi, generazione un po’ più adulta, che siamo nell’età fuori dai bonus (dai trenta in su), manca la capacità di sognare, che è diventato difficile perché ci hanno raccontato un’altra storia, negli anni Novanta. Ci hanno raccontato un futuro diverso, con molta più speranza. Invece ci ritroviamo a vivere un presente che non mi piace, anche perché ci sono molti richiami al peggiore dei passati che abbiamo vissuto. Come possiamo cambiare il presente? Cerchi di capirlo, di farti delle domande su questo presente, che vivi anche con difficoltà perché non hai l’energia della “gioventù” e hai il peso delle responsabilità. Non so, io credo che viviamo in un brutto presente. E ho paura che il futuro possa essere una versione amplificata di questo presente.
Quindi quello di cui parli anche in Buh! è un futuro collettivo, più che individuale.
Sì, è un futuro collettivo. In Buh! c’è un pensiero politico, non tanto a livello di partiti quanto piuttosto di soggetti della collettività. È la società che abbiamo intorno che spaventa.
In Tuono, citando una frase di Questa strana e incontenibile stagione di Zadie Smith, dici: «Chissà quando siamo diventati soltanto timidi sognatori». Pensi che la gente oggi sia più timida, più timorosa, quando si tratta di sognare? Che lo faccia con più prudenza che in passato?
Sì, io la vedo più timida. Vedo una collettività che si sta incattivendo. Anche il testo di Tutto, che mi rendo conto essere di difficile comprensione, si riferisce alla stessa cosa. Avevo sognato e immaginato una collettività colorata, vorace di condivisione. Quando avevo poco più di vent’anni non era questa la collettività che immaginavo.
Anche A casa tutto bene si ricollega: è stata una chiacchierata che ho fatto con mia mamma, che parlando della propria generazione diceva: «Ma che cazzo di mondo vi abbiamo lasciato? Che brutto! Io adesso ti vedo da adulto e vedo delle difficoltà che non immaginavo per te da grande. Abbiamo fallito qualcosa e adesso che sono nonna mi chiedo che cosa potrà avere mio nipote dalla vita».
La paternità ti mette nella condizione di riflettere sul futuro: ce l’hai davanti a te.
Sì, assolutamente, e fa un sacco di paura, ti mette davvero di fronte a queste cose. Non puoi più limitarti a sopravvivere, ma hai la necessità di una progettualità. Cazzo, apri il giornale e dici: «Ma quanta responsabilità ho io verso un adulto del futuro?». Ed è una responsabilità immensa. Non puoi tralasciare nessun aspetto. Bisogna chiederselo e fare queste riflessioni: forse in pochi lo fanno, ed è perché non hanno più la forza di sognare. Quando ce l’hai hai sempre voglia di partire dal presente per fare cose positive per la collettività nel futuro. La società si è dimenticata l’importanza della collettività.
In quest’ottica allora fare un album è un atto quasi di resistenza a questa “crisi dei sogni”, no?
Fare un disco ti proietta verso il mondo quasi con ferocia, perché t’imponi al mondo. Ho sempre visto la musica come fare canzoni per andare a suonarle su un palco, non per lasciarle su Spotify alla deriva. Durante il lockdown non sono riuscito a scrivere nemmeno una nota, perché non sapevo neanche se la musica live ci sarebbe ancora stata. Non riuscivo a comporre niente. Quando ho iniziato a vedere che si poteva di nuovo andare ai concerti e che ci si poteva muovere e uscire mi è venuta una grande carica creativa, uno tsunami, e le prime quattro canzoni le ho scritte in una settimana.
A tal proposito, Buh! è un disco scritto di getto. Scrivi sempre così?
No. Di solito io ci penso e ci ripenso, devo fagocitare le idee. Quando ho fatto il primo disco stavo tanto in casa. È un disco molto pensato, in ogni particolare. In ogni canzone c’è una soluzione compositiva diversa, di cui non mi ero neanche reso conto. Ogni secondo di quell’album è proprio molto pensato.
Invece questa volta ho voluto buttarmici, buttarmi sulle canzoni. Tutto l’ho scritta in mezz’ora: ce l’avevo in testa, la melodia mi ha punto le idee – come dev’essere una canzone. Un giorno ero a casa e avevo la febbre, mi sono messo al computer e in mezz’ora le ho dato forma. Ed è rimasta così! Non è cambiato niente se non una batteria, un basso e una chitarra suonati. È stato molto di getto; poi sì, gli aggiustamenti sulle canzoni comunque in un secondo momento arrivano.
Secondo me questo è anche un disco molto d’impatto, anche a un primo ascolto. Naturalmente si può anche ascoltare più a fondo, entrarci e scoprire di più, ma fin da subito trovo che sia molto efficace da un punto di vista comunicativo. Immagino che sia un effetto cercato.
Assolutamente! Stiamo facendo le prove per il live e mi sto divertendo tantissimo, perché è vero, le canzoni sono molto più d’impatto. È un live divertente, anche con quelle vecchie riarrangiate.