– di Giacomo Daneluzzo –
All’inizio di questo dicembre anomalo è uscito per Dischi Sotterranei Acerbo e divorato, una release altrettanto anomala che costituisce l’album d’esordio di Vipera, anticipato dal singolo Il Matto. Vipera è il nom de plume di Caterina Dufì, artista salentina d’origine e bolognese d’adozione, e ha all’attivo l’EP Tentativo di volo, uscito nel 2021 – oltre a un paio di tracce in collaborazione con altri artisti. Acerbo e divorato è un disco particolarissimo, registrato e prodotto a Verona da Niccolò Cruciani, che aveva curato anche la produzione dell’EP, ed è costituito da sei canzoni e due intermezzi in cui Vipera usa delle immagini per raccontare e raccontarsi con un velo di ermetismo posato su un’espressività straordinaria; in effetti Vipera, secondo me, è soprattutto un’artista capace di esprimersi in modo totale attraverso la propria musica.
Le ho fatto qualche domanda per andare più a fondo nella scoperta di quest’album unico, da ascoltare e riascoltare più volte. E, a dispetto del suo pseudonimo, ho trovato Vipera/Caterina una persona molto gentile, che mi ha spiegato per filo e per segno un sacco di cose, facendomi entrare nel suo mondo fatto di immagini medievali e citazioni letterarie. Il tutto con una grande preparazione in materia e una certa cura ai dettagli di ciò che dice. Ecco che cosa mi ha raccontato.
Quando ho sentito Il Matto ho subito pensato che fosse qualcosa di differente da tutto ciò che si sente in giro. Mi sembra che introduca bene il disco, che lo presenti in modo molto appropriato. È per questo che una canzone come questa, nonostante non sia affatto “pop”, è stata scelta come singolo di lancio?
Sì, questo è stato il motivo. Credo che sia un’apertura sensata, un ingresso nel disco, rispetto agli altri brani. Non è il brano più orecchiabile – di solito si usa questa strategia per i singoli – ma è un’apertura. Inoltre avevo immaginato, una volta ultimati il brano e la produzione, a un’immagine che rappresentasse il brano: viceversa non è stato lo stesso con gli altri brani, quindi l’ho immaginato subito come singolo. Ne ho parlato anche con Niccolò [Cusani, nda] e ci siamo trovati d’accordo. Un altro motivo per cui è un unicum è che è il solo brano di Acerbo e divorato a essere registrato in presa diretta: l’abbiamo registrato in studio.
E come ci è finita dentro una citazione dantesca, del Purgatorio?
Il brano parte da una poesia di Claudia Ruggeri, una poetessa campana naturalizzata leccese, che s’intitola Il Matto I. In apertura a questa poesia c’è proprio questa citazione di Dante. Nel testo riprendo pari pari alcuni versi di questa poesia. Lei è una figura minore, nel panorama letterario italiano, per fato e non per merito. È bravissima.
A proposito di citazioni, in questo disco ce ne sono parecchie, dalla filosofia – l’anima bella di Hegel in Anime (intermezzo due) – alla mitologia – i Mirmidoni, il popolo di formiche trasformate in esseri umani, in Sogno steso al sole. Che rapporto hai con questi ambiti?
È raro che qualcuno becchi Hegel! Il mio rapporto con la filosofia è mediato da testi letterari, di prosa e di poesia. La citazione di Hegel me l’ha fatta scoprire Umberto Eco nel saggio Del modo di formare come impegno sulla realtà, in cui la collega a un discorso sul rapporto tra rappresentazione e responsabilità storica di chi fa. In questo saggio unisce questo discorso a degli elementi di composizione base, cioè fa riferimento al ritorno alla fondamentale alla fine del brano, intesa come scelta del ritorno a casa, e parla della possibilità di scegliere di non farlo, quindi di andare contro a quest’usanza – che fa sì che un brano sia particolarmente orecchiabile. È un saggio bellissimo, veramente.
Questo meccanismo del “non ritorno” alla fondamentale è interessante anche perché il tuo lavoro musicale non vuole essere orecchiabile, esce da quelli che possono essere i “canoni”, quindi ci vedo una certa coerenza. Eppure mi sembra che da Tentativo di volo ci sia stata un’evoluzione, un avvicinamento alla forma canzone – per quanto comunque non si possa parlare di forma canzone canonica. È così?
È vero, c’è stato il tentativo di dare ai brani una forma più vicina alla forma canzone. C’è anche stata un’attenzione maggiore all’arrangiamento: l’EP ha avuto una nascita più istintiva. Invece molti brani di questo disco sono nati “dal vivo”, li ho scritti e ho iniziato a lavorarci con la band con cui suonavo prima del progetto Vipera (alcuni dei membri della band di Vipera sono ragazzi con cui suonavo anche prima); poi hanno subito varie rielaborazioni, prima di essere registrati. E anche i brani che sono nati già con l’idea di essere in un disco, quindi non in questo modo, hanno una storia simile.
Per quanto riguarda la forma m’inquadro molto in una struttura compositiva più di build-up, più graduale. Probabilmente è perché mi piace molto il genere spoken word. Ho ascoltato tantissimo i Massimo Volume.
In questi due anni di stacco tra Tentativo di volo a Acerbo e divorato hai collaborato con Francesco De Leo, uno dei miei autori preferiti, nel brano Serpente, che è contenuto nel suo disco solista Swarovski.
Non mi aspettavo questa cosa, quando è successa. Non lo conoscevo, almeno non personalmente: sono una grande ascoltatrice dell’Officina della Camomilla, lo sono stata al liceo e ora ho venticinque anni ed è rimasta una grande stima nei suoi confronti. Mi ha scritto, mi ha chiesto di fare questa cosa – probabilmente aveva ascoltato l’EP – e poi l’ho conosciuto, perché è venuto a Bologna qualche volta e ci siamo beccati. Per me è stato strano proprio per via di questo residuo adolescenziale, oltre che per il fatto che è una figura un po’ mitologica.
E poi c’è stata anche una collaborazione con C+C=Maxigross.
Ho conosciuto i C+C nel febbraio 2020, appena prima del COVID-19, perché ho aperto un loro concerto a Bologna. Lì ho conosciuto anche Niccolò [Cruciani, nda], che mi ha proposto di mandargli delle cose che stavo facendo per registrarle. Dopo più di due anni mi hanno chiesto di cantare in questo brano, che è una dedica a Miles Cooper Seaton [scomparso a febbraio 2021, nda], cantante degli Akron/Family e grande figura della formazione dei C+C, che ha prodotto anche alcuni dei loro dischi. Un musicista incredibile, con una voce fuori dal comune. Nell’ultimo disco Phases in Exile c’è un pezzo che si chiama Pacts with Beasts: bellissimo.
Nell’EP Tentativo di volo c’era molto di più la lingua inglese, rispetto ad Acerbo e divorato. Che cosa significa per te la scrittura in inglese e che cos’è cambiato? Molti artisti che ho intervistato mi hanno detto che per loro scrivere in inglese è un modo per nascondersi: è così anche per te?
Sì, assolutamente. Spesso – anche se non con i brani di questo disco – mi è capitato di “confessarmi” qualcosa di molto aguzzo e diretto, e in questi casi è più facile dirlo in inglese. È un modo per far parlare qualcun altro. Non essendo madrelingua e non parlandolo a un livello tale per cui la traduzione è immediata c’è una sorta di intercapedine che mi dà una leggerezza diversa e mi avvicina alla musica. Per alcuni testi l’inglese è di passaggio, li scrivo in inglese, ma poi diventano in italiano, mentre per altri l’inglese resta. Dipende da quello che riesco a ottenere.
Ascolto molta musica anche in italiano, ma a livello di realtà prosodica la musica e la poesia in inglese hanno una musicalità diversa dalle loro controparti in italiano. Non la corrisponde, né la eguaglia, né la supera, però per me ha un fascino particolare, il fascino del non immediato. È come se fossero parole riferite, non mie. Battiato è il primo che mi viene in men te, se ci penso: ha usato l’inglese, ma anche il tedesco, il francese e lo spagnolo – lingue che non conosco altrettanto.
Mi sembra che quello che descrivi sia un processo autoanalitico. La tua scrittura serve a capire tu per prima qualcosa di te?
È così, è una terapia. Se scrivessi più pagine di diario i miei giorni si articolerebbero in maniera più chiara. Non lo faccio perché non ho l’abitudine di farlo, però quando ci sono momenti molto tosti arriva lo scrivere, il travasare quello che ho dentro in cose esterne, anche cose che non appartengono al mio vissuto personale. La scrittura è in gran parte questo, è un canale. Veste totalmente una parte del mio essere. Se scrivere non è urgente mi auguro di non farlo mai.
Nel comunicato si parla del fatto che il fil rouge del disco è la struttura dell’albero, mai nominato nei testi ma presente nel disco, nei temi della ripetizione (processi del rapporto persona-mondo e nuclei melodici e ritmici) e dell’equilibrio (spinta alla verticalità ed evoluzione interiore). C’è un lavoro concettuale molto elaborato: come ti è venuto in mente?
Quest’idea dell’albero è nata perché ho scoperto questo simbolo nei codici medievali e anche, per esempio, nella Sainte-Chapelle di Parigi: ci sono nelle vetrate dei tondi che narrano la storia dei progenitori di Cristo ed è una narrazione fatta in maniera sintetica, scegliendo i punti, i picchi, le altezze che si raggiungono nel corso di queste storie e che ne determinano l’andamento. È una raffigurazione che m’interessa molto: nasce come espediente da usare nei processi, quindi nell’ambito del diritto, non dell’arte. Nel diritto ereditario per definire l’incestuosità di una relazione all’interno di un rapporto di parentela si segue lo schema dell’albero, che di solito è rappresentato con alla base o dietro il progenitore. A seconda di come si articola si può stabilire se le due persone incriminate hanno compiuto un incesto: se si trovano a un grado di parentela inferiore al settimo la relazione può definirsi incestuosa, altrimenti no. Naturalmente c’è anche una numerologia particolare che coinvolge il numero sette.
Da lì è passato al mondo dell’arte figurativa. Il mio albero, quindi, è l’albero della consanguineità, che mi affascina molto, sia da un punto di vista personale che di affiliazione estetica. La prassi più usata oggi è un’idea rizomatica dell’evoluzione, ma recuperare l’albero è un modo per recuperare la possibilità di narrare delle cose, tenendo presente la loro struttura caotica e non gerarchica. È anche un modo di tutelare una certa comprensione, che magari non c’è per quanto riguarda il reale, ma che nella propria narrazione individuale c’è e dà una possibilità di comprendere il condizionamento della vita determinato dal carattere. Quindi comprendere come questo carattere si è evoluto, quali sono stati i miei nodi, i miei cerchi.
Tutto questo, comunque, è molto laterale rispetto ai brani. È una forma simbolica.
La tua fascinazione per il Medioevo si può notare anche nell’iconografia, nell’estetica del tuo progetto.
Sì, sono ossessionata, per me è un po’ un tarlo. Forse più che di Medioevo possiamo parlare di Rinascimento, le cose che amo di più sono quelle del XV secolo. Comunque adesso vorrei andare verso una cosa un po’ diversa, a livello rappresentativo. Vorrei pormi un problema di forma attuale, cosa di cui mi sono sempre disinteressata: ho un atteggiamento impulsivo, che è mio, ma che in questo periodo sto mettendo un po’ in discussione. E mi riferisco non solo alla parte iconografica, ma anche alla musica e ai testi.
Quindi dobbiamo aspettarci qualcosa di molto diverso in futuro?
È quello che io auspico. Però potrei, invece, restare nei miei rigurgiti medievali.