– di Giacomo Daneluzzo –
Ho conosciuto Ibisco, nome d’arte di Filippo Giglio, l’anno scorso a Faenza, in occasione del M.E.I. 2022, e fin da subito mi è stato chiaro che si trattasse di un artista di talento. Era uscito il suo primo disco, Nowhere Emilia, da non molto, e non sapevo che un anno dopo ne sarebbe uscito un altro, più maturo e consapevole, ma anche “colorato”: ed ecco che il 20 ottobre è uscito per V4V-Records/Virgin Music LAS Italy LANGUORE, il suo nuovo progetto, prodotto a quattro mano da Ibisco e Marco Bertoni, che il cantautore ha presentato la sera in cui è uscito a Germi, il locale di Milano fondato da Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo, Francesca Risi e Gianluca Segale, in un live piano e voce intimo e coinvolgente.
È in quest’occasione che ho avuto il piacere di intervistarlo e di chiacchierare con lui di LANGUORE, della sua musica e della sua vita.
Ciao Filippo, com’è andato quest’anno, da quando hai suonato al M.E.I. ad adesso?
Dal M.E.I. in realtà ho fatto poche date dal vivo, perché sono entrato subito in studio per realizzare il nuovo disco. Ho fatto qualche data perché è uscito un singolo a inizio estate, per tenere la macchina in moto. Mi piace suonare live, ci piace. Per il resto ho lavorato come informatico-programmatore, il mio solito lavoro.
Quindi sei un programmatore?
Sì, ho una formazione tecnica, dopo le superiori ho provato ingegneria, ma poi ho abbandonato gli studi e ho iniziato a lavorare. Dopo quattro anni ho iniziato scienze della comunicazione, a cui sono ancora iscritto. Mi manca un esame da due anni, sono bloccato.
E lo darai?
Probabilmente mi metterò. È un esame di diritto, pura memoria. In realtà mi piace anche l’idea di abbandonare con un esame rimasto da fare… Però voglio finire, se no sono sempre quello che non finisce le cose, invece no: voglio finire.
Invece dal punto di vista musicale non solo finisci le cose, ma tra il primo e il secondo disco è passato un tempo piuttosto breve, meno di due anni.
Sì, questo però è dovuto al fatto che Nowhere Emilia è stato rimandato per il COVID, altrimenti sarebbe stato pronto un anno prima rispetto all’uscita. LANGUORE contiene dei pezzi che erano già in fase di sviluppo quando è uscito il primo. In quel momento Nowhere Emilia per me era già “vecchio”, era una roba finita da mo. È sempre un po’ così: adesso sto già pensando al terzo disco, perché sul secondo ormai non posso più farci niente.
Fino a ieri forse qualcosa potevi fare… Ma oggi proprio no.
Sì, be’, è da masochisti, ma forse qualcosa si poteva fare fino a ieri.
E come ti senti adesso che sta per uscire?
Bene. È un disco che ho sudato tanto, una scommessa artistica, se vogliamo. Non è un disco facile, per niente.
Io trovo che sia un disco molto denso, rispetto al primo.
Sì. È un disco molto organico, molto pastoso.
Quali sono le principali differenze tra il primo e il secondo disco, dal tuo punto di vista?
Una differenza importante è tematica. Il primo disco era sullo spazio, sui non-luoghi, sull’influenza dei landscape emiliani, dei paesaggi emiliani, era un flash visivo legato all’aspetto, urbano e non. Questo invece è un disco che scava più dentro, più introspettivo, quindi arriva a essere più profondo, secondo me. Mi metto più a nudo. Inoltre se il primo disco era sullo spazio, questo affronta il tema del tempo, entrambe grandi tematiche.
Un’altra differenza è che sul primo disco non avevo idea di come avrei potuto portarlo live, quindi ho cercato di fare un disco che potesse essere portato anche in solo: molta elettronica, molte batterie sintetiche. Non puoi fare un disco con un’orchestra se non hai il budget per farlo live, devi pensarci già un po’ in fase produttiva. Per questo secondo disco invece sapevo di poter contare su una band: batterie vere, bassi veri, tante chitarre. Più suonato, più analogico. È un disco molto più analogico del primo, questa è l’altra distinzione importante.
Quando inizi a lavorare con “roba vera” è più bello, più soddisfacente, anche se poi magari è una cosa che percepisce solo chi la fa e che agli altri non interessa affatto. LANGUORE un disco molto suonato e delegare alle sequenze parti molto suonate sarebbe un pugno nello stomaco, mi darebbe fastidio. Poi si fa di necessità virtù: ho ho fatto un tour con basso e batteria live e le chitarre in base, che è una cosa che per molti fa schifo, ma alla fine ai concerti il pubblico pensa ad altre cose, anche se sì, ci sarà il purista che dice: «Oddio, le chitarre in base!».
Poi è dettato tutto anche dal tempo in cui vivi: se io vivo in un tempo in cui non posso permettermi le chitarre faccio le chitarre in base e questa è un’immagine figlia del tempo, che suggerisce che oggi un artista fa fatica a fare un live con una band, non può darlo per scontato, a meno di trovare musicisti che suonino gratis, ma comunque non è giusto far lavorare la gente gratis… Un disco restituisce anche immagini di questo tipo.
La cover del disco è molto d’impatto. Com’è nata?
Ho fatto un primo disco tutto in bianco e nero. Non voglio diventare il cliché di me stesso, è una cosa che mi spaventa e voglio rinnovarmi a ogni disco, senza mai fare la stessa cosa che ho già fatto. Ci siamo chiesti: «Come fare questo switch al colore?» Ci siamo affidati a Giovanni Bonassi, che ha disegnato la copertina e tutta l’estetica grafica. Io ho dato reference: una era Kirchner e l’altra Ernst, due pittori. Volevo una cosa disegnata, in linea con l’analogico, l’umano che fa la cosa. E lui mi ha proposto un bozzetto, inizialmente in bianco e nero. Siccome era lavorato a mano andavamo per gradi – perché non è che potessimo rivedere le cose, una volta fatte. Gli ho detto: «Vai, mi piace tantissimo!», allora ha messo il colore ed è uscita quella cosa lì, che secondo me è molto appropriata. Non enfatizza gli aspetti più cupi ma anzi, dà vigore a quelle note di colore, che anche nel suono magari sono emerse in questo disco, e all’aspetto esplosivo, un po’ “schizofrenico”, se vogliamo, del suono.
A volte poi le cose piacciono e si cerca dopo il motivo. In questo caso è stato anche così.
Le reference che hai dato sono piuttosto precise: sei interessato all’arte figurativa? Penso che non molti musicisti avrebbero dato una risposta così precisa.
È vero. Sì, è un argomento di grande interesse per me, leggo molti libri d’arte e m’interessa molto, specialmente la pittura. La storia dell’arte, specie moderna e contemporanea, mi piace molto. Ho cercato di attingere da lì, perché i maestri del visivo – fotografi e pittori – vengono da lì. Sono molto soddisfatto di questa copertina. Per me è una bellissima copertina.
Mi hai parlato di toni chiari e toni scuri del tuo disco. Come convivono questi aspetti di luce e ombra nel tuo progetto artistico e nella tua persona?
Nei miei testi affronto tematiche spesso cupe e tristi. Ma non mi ritengo una persona deprimente. In me convive una serie di stimoli di varia natura. Il fatto di prendere degli estremi e farli convivere fa parte della mia vita quotidiana e si riflette nella mia musica. In questo disco, per esempio, c’è una componente molto suonata, ma anche una componente elettronica: mi piacciono gli opposti che convivono, credo molto in questa cosa qui, almeno rispetto a me e alla mia vita.
Il titolo, LANGUORE, mi evoca scenari che contengono dei tentativi per contrastarlo, dei tentativi esplosivi, euforici: il contrario di “languore” potrebbe essere “furore”. C’è qualcosa che cerca di sovvertire e per sovvertire il languore serve altrettanta energia in senso opposto, che chiaramente a volte causa dei disagi, perché è una forza molto potente, frantumatrice, quella che contrasta il languore, che invece è abbandono a un sentimento di mancanza, di insoddisfazione, di vuoto perenne. È per contrastare il languore che cerchi un’esperienza forte, che possa scardinare e invertire questa tendenza, quest’inerzia.
Non è così facile, secondo me, scrivere di cose drammatiche.
No, anzi, rischi di fare una cosa ovvia e scadere nel banale. E il banale nella depressione è molto peggio del banale nell’allegria. L’allegria almeno “prende bene”, anche se è banale.
Per me i dischi così, drammatici e non banali, sono quelli più fighi. Vorrei fare un disco così, che non cerca la tristezza, ma la fa scaturire da sé. Non puoi dire: «Voglio scrivere una cosa triste che funziona», perché si sente che è artificiale. Io cerco – anche a mio danno, perché rinuncio a una fetta di pubblico – di non pensare mai a soluzioni che “funzionano” in termini di risposta di pubblico: non m’interessa per niente.
Io continuo ad avere il mio lavoro – che è un lavoro che mi va bene – anche per questo: so che comunque questo tipo di attitudine se mi darà da lavorare non lo farà in breve tempo.
È importante restare in linea con il proprio progetto artistico. Molti sono disposti a sacrificarlo.
Io ho ventotto anni, che non sono tanti ma neanche pochi. È un’età in cui si fa fatica a fare cose che non piacciono, che si sentono forzate. Io sono contento di quello che sto facendo. Il progetto artistico che sto portando avanti mi soddisfa e ne vado fiero. Sono contento di farlo uscire e non me ne vergogno, che non è scontato. Se fai i numeri con la marchetta trash e poi ti trovi in un contesto in cui si respira un certo tipo di credibilità ti senti a disagio. Per me quella cosa vale molto di più. La stima vale più dei soldi.
Hai qualche idea di come sarà il “nuovo Ibisco” dopo questo disco?
Sarà sempre qualcosa che nasce da una cellula di “già fatto” che si sviluppa in qualcos’altro. Ho voglia di fare un disco variegato, meno concentrato, con più tracce, più aria. Ho quest’idea qui.