Quel modo pregno di saudade, caraibico nel sangue e di spensierata leggerezza nel DNA che, in ben altri suoni ma in medesimi andamenti il mitico Bud Spencer ci regala in pellicole epocali com “Io sto con gli Ippopotami”. Tutto questo dicevo apre un disco d’esordio che resta in bilico tra tutto e il contrario di tutto. Suona “Coming in Bunches”, suona con quel caldo afoso del villaggio turistico, suona con l’arsura estiva di birre congelate, suona anche come quando quelle stesse birre le bevo al calar della luna, consumando un amore clandestino mentre poco lontano, in piazza, qualche festa sacra va di scena. Suona anche come quando penso alle decappottabili dell’Havana e ai sigari dei narcotrafficanti, ho mi godo il silenzio su una tavola da surf al riparo di qualche squalo assassino… e per la verità suona anche come fosse una versione punk e rockabilly di una pellicola cult degli anni ’70.
Si spara per le vie di Milano ma siamo a Cuba o da qualche altra parte a portata di cocktail. E poi c’è allegria, c’è disincanto… c’è che la band bolognese degli Unkle Kook – che già dal moniker sembra non prendersi sul serio neanche per scherzo – sforna un lavoro capace di servire in tavola una mano di carte davvero “spaiate” a prima vista, prive di giocabilità direbbe il vecchio abitudinario… se non fosse che poi arriva l’amalgama del loro suono (davvero suonato e con grande mestiere) a dare senso e credibilità a tantissime direzioni imprevedibili. E non mancano i Balcani… l’avevo detto? Fate girare “Cicek Dagi” ad esempio dentro cui il sax di Tommaso Quinci non fa che cercare quel certo sapore turco per portare tutta la melodia.
E dunque, per meglio fotografare tutto prendo ad esempio “Flooded Saloon” dentro cui troviamo di tutto: un drumming caraibico, chitarre che allo shoegaze rubano quel gusto poliziesco noir anni ’70, con quella progressione in apertura che richiama appena “Sparring partner” di Conte… mi piace “Astro”, forse il brano meno scontato e più ricercato di tutto l’ascolto assieme a “Rango”. Mi piace proprio il tiro calypso dei fiati e delle chitarre che poi lasciano spazio ad un ricamo surf (altra colonna portante dei tanti modi di questo disco) per poi… beh qui si fa interessante: se l’idea è di portarmi sullo spazio dentro una navicella, beh allora rombo ai motori e al frastuono dei reattori. E queste ricerche prive di luce di “Rango”, dicevamo, momenti sospesi, area distopica di un disco che solo nel ricamo di chitarre qui ricorda da dove stavamo venendo…
Ancora potenza cinematica dai timidi richiami classici dentro un brano come “Busted Motorbike”, di nuovo sapori turchi, sapori rock’n’roll, sapori rockabilly… sapori che però a lungo andare per tutte le 10 tracce, a parte qualche timido momento di voce e qualche isolata soluzione di cui si è parlato, rischiano di rendere omogenea (troppo omogenea) tutta la veduta che si offre alle nostre orecchie. E rischio di perdermi la spigolosa intelligenza di “Hot Sand”, acuminata leggerezza di sex-appeal e ironici imprevisti di scena, con tanto di finale che in qualche misura richiama le linee di sax nei dischi di Charles Mingus che intervengono prima che il tutto si trasformi in momenti di vera psichedelia. Rischio di veder passare con distrazione (mia) il punk rock acido di “Sert Beat”, punk si ma sempre con i risvolti ai pantaloni e la vespa sotto casa. Gli Unkle Kook sono musicisti che hanno davvero grandi carte da giocarsi – si pensi che il disco, a quanto detto, sia registrato in presa diretta e su nastro – e dalla loro il coraggio di rischiare in un lavoro ardito, impegnato e impegnativo… sono dischi di personalità in continue scazzottate con l’estetica… sono dischi di pura follia romantica.
Cacao