– di Riccardo De Stefano –
A distanza di un anno dalla sua partecipazione a Sanremo, Giovanni Truppi presenta un nuovo lavoro. “Infinite possibilità per esseri finiti” è un racconto autobiografico e universale al tempo stesso, un percorso che parte da Roma e arriva a Bologna dove l’artista racconta il suo ruolo nella Città, nella società e nel mondo.
Sei napoletano, hai vissuto a Roma e ora ti sei trasferito a Bologna. Questo viaggio è alla base del tuo ultimo disco, che è il più autobiografico. Come mai è arrivato il momento di riflettere su quel passaggio da Roma a Bologna?
In realtà non mi sono posto il problema di raccontare questo passaggio, quanto più quello che è accaduto negli anni dopo la pubblicazione del mio (ormai) penultimo disco. In quel periodo mi sono successe tante cose e mi è successo di riflettere su tutti questi aspetti. Come al solito e diversamente dal solito ho acquisito, rielaborato e messo tutto nel disco. Non sarebbe stato possibile compiere questa operazione mentre accadeva, quindi ora è il momento.
Nel disco parli di Centocelle e Bologna. Qual è la differenza tra la dimensione del quartiere e della città?
Quando un posto diventa casa e cominci a conoscerlo meglio e più da vicino acquista un’identità diversa anche nei suoi pezzetti. Roma è stata la mia casa per tanti anni ed è un posto che ho iniziato a spacchettare solo conoscendolo meglio. Centocelle è il quartiere dove ho vissuto e abitato quindi quando parlo di luoghi familiari mi viene naturale parlare di Centocelle. A Bologna sono ancora considerato appena arrivato, per come vivo il tempo e i cambiamenti, quindi è normale che io le dia ancora del lei e non mi senta di avere quel tipo di confidenza con un quartiere.
Dieci anni fa cantavi «Io sono nato a Napoli e adesso vivo a Roma, a Roma si sta meglio che a Napoli, ma io sto meglio a Napoli». Dove stai meglio ora?
Sono una persona abbastanza lenta nei cambiamenti e in qualche modo anche fedele; in questo momento sento Roma molto più come casa. Una volta che instauro un rapporto di amore ci metto tempo a lasciarlo alle spalle. Se adesso dovessi riscrivere quella canzone metterei Roma e Bologna al posto di Napoli e Roma.
Un anno fa la tua partecipazione a Sanremo, con un brano molto bello, dal sound diverso da quello che ci si può aspettare di sentire su quel palco. Tanti artisti che sono arrivati a Sanremo hanno poi avuto una svolta pop. Mi sembra che tu sia andato nella direzione opposta: hai abbracciato lo spoken word, addirittura qualcuno ha definito il tuo disco una sorta di podcast. Come rivivi oggi quell’esperienza sanremese?
È stata un’esperienza importante dal punto di vista lavorativo, dalla quale ho imparato tanto. Mi sono confrontato con una realtà che, pur facendo questo lavoro da tanto, conoscevo veramente poco. Sanremo non è mai stato in cima alla mia lista dei sogni, ma allo stesso tempo non ho mai pensato che non mi interessasse fare quel tipo di esperienza. Con lo stesso spirito ti dico che se dovesse ricapitare di avere il brano giusto, non escluderei la possibilità di tornarci.
Arriviamo a “Infinite possibilità per esseri finiti”, che non è solo un disco, ma c’è stata un’opera collettiva dietro. In un momento in cui la musica si riduce sempre più ad essere un singolo, come mai hai pensato a tutto questo progetto?
Dunque, per me è un disco ed è stato sempre un disco. Allo stesso tempo, penso che i dischi siano un universo che va a braccetto con i costumi e più in generale con l’aspetto della comunicazione. Entrambi sono aspetti che mi hanno sempre interessato.
A un certo punto mi sono posto il problema di come raccontarmi sui social e sul web e questa cosa è coincisa con il percorso di avvicinamento al disco. Ho coinvolto Aldo Giannotti, a cui ho proposto di ideare la copertina del disco: mi sembrava sensato affidare a lui tutta la parte visiva del disco. Mi incuriosiva l’idea di cercare strade alternative e integrative rispetto ai social per raccontare me. Ho aperto un canale Telegram e costruito un sito che ha aiutato, insieme ad altri elementi, ad esempio il podcast, a creare un vero e proprio habitat attorno al disco. Lo stesso è successo con la collaborazione con la compagnia di teatro d’ombra romana Unterwasser, che ha accompagnato visivamente il disco nel corso delle date di anteprima. Eseguivo il disco dall’inizio alla fine, accompagnato dalla loro performance: la parte visiva è un aspetto che nei live già c’è, l’ho solo declinata a mio modo cercando di fare la cosa migliore per questo disco. Sono molto contento, mi sembra un disco fuori da certi schemi, e non era semplicissimo da raccontare. Mi sembra che tutte queste cose abbiano fatto sì che il disco sia stato recepito bene e che io sia riuscito a spiegarmi al meglio.
Anche nel disco precedente affrontavi il tema politico e sociale; in questo l’oggetto della riflessione politica mi sembra sia rivolto a te stesso. Vedo un certo senso di colpa borghese che rivolgi a te stesso, come se ti riconoscessi all’interno del problema. Qual è la colpa, per così dire, di essere maschi bianchi etero occidentali?
Innanzitutto, non mi sono mai sentito fuori dal problema [ride, ndr]. Sono d’accordo con te quando dici che in questo disco questa cosa viene fuori in maniera molto più chiara. La mia intenzione era proprio questa perché in qualche modo mi sento più a mio agio in questo tipo di postura, in questo momento.
Non c’è una colpa nell’essere nati in un certo tipo di situazione, ma mi sembra logico farci una riflessione sopra. Credo non serva a niente sentire di dover espiare la colpa di questo “privilegio”: il senso di colpa serve a poco, se non ci facciamo niente. Io ho provato a farci qualche canzone, non solo con il senso di colpa, ma più volte abbiamo scherzato dicendoci che era il coautore del disco. Detto questo, per provare a rispondere, credo non ci sia una colpa, ma penso sia molto giusto fare delle riflessioni sulle disuguaglianze che ci sono su questo pianeta e a cui partecipiamo più o meno consapevolmente. Non mi sento nella posizione di dire io quello che bisognerebbe fare: credo che sia un problema che ognuno di noi può scegliere di porsi e affrontare nel modo che crede.
Il tuo è un disco autobiografico che non si risolve nell’io, ma attraversa dinamiche sociali, soprattutto attraverso la dimensione collettiva. Qual è il confine tra personale e sociale? E tra autobiografico e universale?
Non credo che ci sia, credo che nelle cose più piccole dell’esistente troviamo rappresentate anche quelle più grandi. Ci sono meccanismi che si ripetono e strutture che si assomigliano su più livelli dell’esistente. Nelle opere sono sempre molto spaventato dal trattare materiale autobiografico, perché mi spaventa sempre l’idea che non spicchi il volo e rimanga lì per me a servire solo da sfogo. Allo stesso tempo mi sono reso conto negli anni che le cose per me più interessanti artisticamente arrivano da questo cassetto del mio vissuto, quindi credo che, per rispondere alla tua domanda, nelle opere creative la differenza tra personale e universale stia in come riesci a raccontare la storia che racconti.
Credo sia necessario che qualcuno parli ancora di questioni sociali, anche autobiografiche, nel modo in cui stai facendo tu. Ti pesa questo ruolo di artista? Lo vedi come un modo per ricordare agli ascoltatori che si può fare e dire qualcosa in più?
No, non lo vedo in questo senso. Forse questo è l’aspetto che mi piace di meno tra quelli che il parlare di certe tematiche sociali implica. Mi piace rivendicare il fatto che nelle mie canzoni parlo anche di altro, non solo di impegno e di politica. Reputo un valore che un essere umano, una persona, sia interessato alla diseguaglianza. Non credo che un’opera d’arte, per il semplice fatto che rivolge la sua attenzione a tematiche del genere, sia un’opera d’arte migliore di altre. In questo senso non vedo il ruolo dell’artista investito di niente: penso che l’artista debba fare le cose più belle che può, lasciare le persone con delle domande, turbarle, ma il suo ruolo si ferma lì.
Una novità che segue il brano sanremese è la collaborazione di Niccolò Contessa. È curioso che adesso che non vivi più a Roma lavori con un artista che è stato l’akmé della scena romana. Come è stato lavorare con lui?
Lavorare e confrontarti con una persona del tuo settore che stimi tanto ti dà veramente molto. Mi sono confrontato con lui su tantissimi aspetti della scrittura, non solo della produzione. Tra l’altro non lo conoscevo ed è stato interessante avere un nuovo rapporto, direi opposto rispetto a quello che avevo sempre avuto lavorando ai miei dischi, con il produttore. Lavoro da vent’anni con Marco Buccelli, con il quale siamo molto amici e abbiamo una grande sintonia di vedute. Il fatto di portare i miei brani a una persona che stimo tanto e conoscevo poco è stato un modo di uscire dalla mia zona di conforto. Mi ha permesso di capire velocemente quali delle idee che stavo portando avevano le spalle larghe, quali non erano pronte per finire in un disco e quali non lo saranno mai.
Il fatto che Niccolò sia a Roma e faccia parte della scena romana è un dato di fatto e qualcosa significa, però mi sembra che per un certo numero di anni la scena romana sia stata la scena italiana, e percepisco Niccolò come un grande artista italiano. Che sia di Roma è un fatto incidentale. È stato piacevole, dal momento che il disco dialoga molto con Roma, sento di aver lavorato con un romano, più che con un artista della scena romana.
Come vi siete incontrati?
L’ho contattato io, non ci conoscevamo ma mi piace moltissimo quello che ha scritto e trovo che il suo lavoro come produttore sia super. Questa doppia identità mi intrigava.
In un brano rielabori “Blond” di Roger & Brian Eno, in una sorta di anticover. Prendi il tema musicale e ci fai sopra una specie di speech, in cui recita un’altra voce, che immagino come un tuo alter ego più giovane.
Più giovane sì, ma solo di un anno, perché è la voce di Marco Buccelli [ride, ndr]. L’idea per questo brano mi è venuta in mente mentre camminavo in una strada di Bologna ascoltando quel pezzo. In quel periodo stavo lavorando al disco e ho pensato a un testo per quel brano. Ci piaceva e ho iniziato a ragionare con Marco e Niccolò sul modo migliore per metterlo nel disco. La musica di questo brano è bellissima; sarebbe stato molto costoso usare la versione originale e in più ci intrigava l’idea di rivisitare il brano a modo nostro.
Abbiamo lavorato alla produzione della reinterpretazione di questo brano e poi, con il rischio che ci negassero l’approvazione, abbiamo mandato il brano ai fratelli Eno tramite la mia casa discografica. Non è esattamente una cover, è una nuova versione del brano ridepositata in un altro modo. È molto divertente perché alla Siae c’è questo brano firmato da me, Marco Buccelli, Niccolò Contessa, Brian Eno e Roger Eno.
Uno dei tanti argomenti che attraversi è quello della felicità. Leopardi diceva che la felicità è reminiscenza del passato o prefigurazione del futuro, ma che nel presente non ci può essere felicità. Pensi ora di essere felice?
Sono in parte d’accordo con il buon Leopardi, anche se mi mette sempre in difficoltà questa domanda. Ho l’impressione che questo termine, “felicità”, non abbia un’interpretazione univoca. In ogni caso, mi sembra che più o meno tutti convergiamo verso la definizione di qualcosa di molto effimero, piuttosto che una condizione duratura. Non credo di poter dare una risposta a questa domanda, magari potrei dirlo in un momento più speciale di adesso. Ci sono dei momenti speciali della mia vita ma penso che il prenderne coscienza mi faccia allontanare da quello stato che identifico come felicità.