Federico Dragogna è produttore per altri, penso al lavoro fatto con Vasco Brondi, ma è produttore anche di Dove Nascere. Com’è produrre se stessi?
È molto più difficile, soprattutto in quella che può essere “la scelta di fronte alle opzioni”: quando parli con un altro artista c’è da capire cosa funziona e a cosa si è affezionati per trovare la giusta via. Fare questo lavoro per se stessi significa dove essere due persone in una, tentando di seguire le stesse logiche, ma comunque, alla fine, trovandosi spesso a preferire ciò a cui si è più affezionati.
Perché hai dichiarato che il disco è stato lavorato con una lentezza d’altri tempi?
La lentezza è indubbia per quanto ci ho messo, ma sarebbe stato così nonostante pandemie e tutto il resto. Ci tenevo a dire questa mia prima cosa col mio nome sopra esattamente come ce l’avevo in testa. Mi è capitato altre volte, ad esempio coi Ministri, di avere modo di lavorare a cose con tutta la calma del mondo ma di trovarci alla fine con agende già fissate che ci costringevano ad accorciare i tempi sulla chiusura del disco, anche se non eravamo ancora convintissimi del punto a cui eravamo arrivati. Ma stavolta no, stavolta volevo che tutto fosse perfettamente in grado di raccontare il casino nella mia testa in maniera fedele.
L’attualità e il suo racconto è particolarmente presente nel disco: possiamo quindi definirti un cantautore adesso?
Sì, potete definirmi un cantautore: evviva! Mi sta simpatica come qualifica. Più che altro perché mi piace la cosa che il cantautore può farti la canzone chitarra e voce ed è già quella là la canzone. Il disco ha, nonostante la sua varietà, il potere di funzionare ugualmente anche solo chitarra e voce, e volevo che fosse così.
Quindi sì, va benissimo dire che sono un cantautore, in questo senso. L’attualità, in realtà, credo che sia attualità in senso ampio, in senso di epoca, evitando quindi riferimenti che non possano essere capiti fra dieci anni, perché mi piace che i pezzi possano rimanere sospesi nel tempo molto più a lungo.
In “Lavorare è il mio secondo lavoro” racconti di un disagio che sembra sempre più diffuso, ovvero quello generato dall’ansia delle aspettative che ci sono su di noi. Quale pensi sia il problema?
Io penso che stiamo perdendo un po’ il bersaglio. Il significato profondo del pezzo è che la nostra identità è comunque un problema, e c’è un invito a non smettere di ragionare su di essa, di non smettere di ragionare su chi siamo e come siamo composti, sul credere di essere vivi, nel mio caso di non smettere di credere di essere Federico Dragogna e magari essere un cantautore.
A volte cerchiamo di illuderci con la solita tiritera che il fallimento non è un male e che non c’è problema se si deludono le aspettative, ma questo non cambia nulla, perché è una morale spesso infarcita di frasi fatte e luoghi comuni. Anche perché evidentemente non è così, e lo dimostrano i social, ad esempio, che ci pongono nella situazione di doverci continuamente rappresentare, mandandoci tutti in paranoia. Ci troviamo in una situazione che non sappiamo gestire bene, nonostante tutti ci facciamo una grossa morale sull’uso dei social, ma poi non facciamo nulla, quando basterebbe semplicemente mollare il cellulare. Guarda le metro: sono tutti coi cellulari, nonostante tutti sappiano che le cose vanno male e sanno anche da dove arriva questo malessere, ma non fanno effettivamente nulla. È come se ormai non potessimo controllare davvero la nostra identità, illudendoci di farlo perché ci sono delle vetrine che poi in realtà sono finzione.
Pensi che ci sia un’aspettativa sulla scena da entrambe le parti? Sia dal lato degli ascoltatori che da quello dei musicisti.
Credo che stiamo affrontando un periodo in cui c’è una grande confusione nella musica e nei suoi grandi canali. Mi sembra un po’ un ritorno agli anni ’50 in America, in cui c’era tanto di tutto, tutto molto rassicurante, ma tutto un grande casino che non riesce a creare delle sottoscene indipendenti forti, che sono quelle che creano un po’ di contesto culturale.
Invece noi stiamo tornando allo schema Sanremo – Primo Maggio – tour estivi. Credo però che si stia avvicinando un corto circuito, se questi sono gli unici palchi da cui si parla. Anche guardando i cartelloni dei festival estivi mi sembra tutto un po’ confuso, e forse non è per forza un male, ma credo che sia un’epoca di cui faremo fatica a ricordare ciò che stava succedendo, almeno in una visione più ampia.
È un disco che sa unire una profonda disillusione a una grande speranza: come possono convivere queste due anime?
Io ci convivo da una vita, perché io sono questa cosa qua. Sin da ragazzo mi è sempre piaciuto indagare e decostruire le cose, fino ad arrivare al fondo, ma essendo poi nel profondo un grande ottimista allora ci butto dentro sempre la speranza. Forse sarà un equilibrio chimico!
Com’è il live di questo disco?
Ho fatto già un paio di date, con una data “zero” e una data “uno”, e se me l’avessi chiesto cinque mesi fa non avrei avuto un’idea precisa, perché non sapevo come impostarlo bene. Poi ho trovato tre musicisti clamorosi, artisticamente e umanamente, che rendono il tutto estremamente naturale. Si riesce a rendere il disco molto più vivo e più da band, però con le stesse dinamiche e gli stessi suoni.
Qual è il futuro dopo “Dove Nascere” per Federico Dragogna e i Ministri?
Con i Ministri stiamo preparando cose. Per il mio futuro vediamo, perché volevo fare questo disco per sbloccare un mondo, per dirla videoludica. Quindi non so, vediamo quello che succede, ma sento che dopo aver fatto questo passo le possibilità sono davvero infinite.