– di Simone Spitoni –
Ricorderete tutti, sicuramente a partire dalla famosissima copertina (omaggiata da un grande come Falco nell’album “Emotional” del 1986) l’album “Elvis” del 1968, lavoro con il quale il re del rock tornò alla grande dopo anni di film (alcuni assai mediocri) in una scena musicale che era radicalmente cambiata dopo l’arrivo della British Invasion e già immersa nella psichedelia prossima alla Summer of Love, nonché nel primissimo hard rock.
Così come Presley rivendicò il trono nel 1968 spodestando (più o meno) i suoi discepoli, così i Baustelle (si parva licet, ma nemmeno tanto parva) tornano oggi alla grande in una scena che molto probabilmente non è – o forse non è mai stata – alla loro altezza.
Chi scrive ritiene infatti il gruppo toscano tra le migliori cose mai accadute alla musica italiana degli ultimi vent’anni, anche grazie ai loro primi quattro album che sono state vere e proprie pietre miliari, fino al loro punto più alto raggiunto con l’album “Amen” del 2008.
Poi, cosa è successo ai Baustelle? Album solisti, sperimentazioni con l’elettronica, testi scritti per altri artisti, e poi la sorte peggiore: milioni di band fotocopia che hanno scambiato la cultura retrò del gruppo per spocchia irritante e il gusto della citazione per mero snobismo ridicolo.
Ma per citare il grandissimo LL Cool J in Mama said knock you out ‘’don’t call it a comeback, I’ve been here for years’’: infatti i Baustelle ci sono sempre stati, anche se mai ai livelli toccati nel 2008.
Fino ad ora: “Elvis” è infatti un grandissimo e graditissimo ritorno che sacrifica l’elettronica per immergersi nel miglior glam anni ‘70 con punte di soul a la Isaac Hayes (ascoltare alcuni intermezzi di chitarra di “La nostra vita”), svariate incursioni nel blues rock non dissimili da quelle dell’Aladdin Sane bowieano e atmosfere che devono più a Lou Reed nei suoi anni migliori che al cantautorato italo/francese tanto caro a Bianconi e che influenzò moltissimo i primi quattro capolavori della band.
Tuttavia, non si può parlare (non uso il termine ‘’recensire’’ perché mi pare brutto e offensivo alquanto) dei Baustelle senza immergersi nei testi. Penso di aver avuto le stesse sensazioni di quando ho visto T2: Trainspotting, ossia un vedere i protagonisti delle loro canzoni vent’anni dopo con un mondo cambiato radicalmente, e sicuramente in peggio.
Qui ci troviamo di fronte a una generazione completamente priva di coraggio, che fa di tutto per evitare l’omologazione quando invece non è mai stata così omologata, tra la ‘’colpa’’ di essere ‘’diversi’’ e la forzatura imposta al dover essere invece tutti uguali.
Ma tutti uguali come? E uguali a chi?
Aggiungiamo poi la perdita di ogni punto di riferimento, una solitudine estrema e un’invasione di droghe legali e non per non pensare assolutamente al baratro interiore che tutti noi abbiamo dentro.
Il passato del quale il gruppo toscano si è artisticamente e umanamente abbeverato sin dagli esordi pare sia roba di cui doversi vergognare, del presente è meglio non parlarne, e il futuro?
Quello ‘’non è scritto’’ diceva Joe Strummer.
In un’era di grandissima confusione ci resta la gioia del fatto che i Baustelle siano tornati, e alla grandissima.