“GLI ANNI DI CRISTO” è il secondo disco solista di MOBRICI, uscito venerdì 31 marzo per Maciste Dischi/Virgin Records/Universal Music Italia.
– di Martina Rossato –
Artista da sempre capace di dar voce alla sua generazione, seguiamo Matteo Mobrici dai tempi dei Canova. Ora, a distanza di due anni dallo scioglimento del gruppo, e di uno da “Stavo pensando a te” con Fulminacci, ha pubblicato “GLI ANNI DI CRISTO”, un disco tanto vero che è impossibile non sentirsi vicini alle sue canzoni.
Comincerei con un’osservazione: con “GLI ANNI DI CRISTO” sono usciti lo stesso numero di dischi come Canova e come MOBRICI. Che effetto ti fa?
È come se questo fosse il mio quarto disco. Quello che faccio adesso è quello che facevo anche prima: scrivere canzoni, cantarle e arrangiarle. Io la vedo così: infatti facendo le scalette per i concerti non scelgo tra due, ma tra quattro dischi. Il mio metodo è rimasto lo stesso, per questo m’interessa molto la crescita che ho avuto: vedo un ragazzo di ventisette anni che ha iniziato con “Vita sociale”, che adesso è diventato un uomo e ha scritto “Amore mio dove sei”.
Poi ci sono tutte le canzoni che avevo scritto prima, dai sedici anni in poi, che erano ovviamente orrende e impubblicabili [ride, ndr].
Che cosa significa essere un cantautore in un mondo in cui non si crede quasi più in niente e in cui è presente questo grande mostro dei social?
Io credo che ciò che faccio sia la stessa cosa che faceva De Gregori quarant’anni fa: il metodo non è cambiato, l’approccio umano non è cambiato, nonostante la realtà oggi sia del tutto diversa rispetto agli anni ’70. È cambiata la comunicazione, il modo di distribuire la musica, ma non l’approccio. Almeno per quanto mi riguarda penso che il mio approccio sia molto simile a quello adottato nel passato.
Ciò che mi accomuna a quel tipo di cantautorato è il fatto di essere una persona che si mostra con le proprie emozioni e con la propria vita.
E in questo mondo che cos’è per te il successo?
Per me il successo è riuscire a scrivere una canzone come “Piccola” o “Amore mio dove sei”. Viene ben prima della pubblicazione: “successo” è riuscire a scrivere una cosa così, vera e aderente alla mia vita e alla mia persona. Il resto, tutta la questione legata ai follower, al successo discografico e così via non m’interessa. Non faccio musica per arrivare a dei risultati commerciali e mi sento totalmente indipendente da questa mentalità.
E in questo senso cambia qualcosa da solista o in una band?
Sicuramente è un’esperienza diversa. Una band ce l’ho comunque, ai concerti, mi piace suonare insieme ed è così che sono cresciuto. Ma la dimensione della band è un pezzo della mia vita che fa parte del mio passato, e io non sono uno che nella vita si guarda molto indietro. Penso di aver sempre fatto scelte corrette. Le canzoni che ho scritto – e quelle ce scrivo ancora adesso – sono ancora totalmente in linea con me stesso.
All’inizio dell’intervista hai parlato della tua crescita e in generale hai raccontato diverse volte di aver avuto un rapporto travagliato con la scuola e con l’università.
Ogni volta che ho avuto a che fare con situazioni che hanno a che fare con i concetti di obbligo e di dovere mi sono sentito fuori luogo. Ho seguito me stesso buttandomi in una “palude musicale”: non c’è una laurea per scrivere canzoni, un attestato, un foglio di carta con scritto che sei bravo. Con la musica il premio arriva dal pubblico ed è indipendente dai libri che studi.
C’è stato un ambiente non scolastico/accademico che hai vissuto come luogo di crescita e di formazione?
Sono state le persone con cui sono cresciuto e con cui vivo ancora la mia vita. Per me il confronto è fondamentale e il mio habitat è il momento del concerto, quando finalmente incontro da vicino chi ascolta le cose che ho fatto; lì c’è uno scambio unico e quando incrocio gli occhi di chi sta sotto il palco c’è un momento di comunicazione che è al di sopra di qualsiasi parola. Si crea un rapporto quasi spirituale.
Quindi risponderei: tutte quelle cose che non hanno a che fare con il dovere, ma con il piacere dello stare insieme, con la voglia di confrontarsi e crescere. Questi sono stati aspetti per me interessanti. Penso che stare in binari imposti da altri porti, alla lunga, frustrazione e inadeguatezza. Appena uno sente una piccola percentuale di questi sentimenti dovrebbe dare un bel colpo di remi e trovare la propria strada.
Ci sono dei momenti in particolare in cui hai fatto fatica a svincolarti da questi obblighi?
Sicuramente il periodo dell’università è stato abbastanza duro. Dopo l’università poi nella vita di tutti c’è un grande vuoto: siamo abituati fin da bambini ad avere qualcuno che ci dice cosa fare, dopo l’università c’è quel grande gradino chiamato vita – e lì sono cazzi tuoi. Ho avuto grande difficoltà a capire la mia strada. Poi, facendo musica, finché non hai quel minimo di successo di cui parlavamo prima, nessuno ti dà una pacca sulla spalla e ti dice bravo.
In un modo o nell’altro si cresce e ora sei arrivato a “GLI ANNI DI CRISTO”, che è un disco generazionale.
Sì, è una lettura che si può dare al disco, ma è una lettura che è stata data a posteriori. È dal primo album coi Canova che mi rincorre questo aggettivo, “generazionale”, ma è semplicemente perché scrivo canzoni vere, che per forza di cose incontrano anche la vita di qualcun altro.
Nel disco ci sono dei temi su cui è difficile confrontarsi, ma allo stesso tempo penso sia facile immedesimarsi nelle mie canzoni proprio perché sono figlie della vita vera, senza filtri, senza censure, senza politically correct. Essendo storie vere, anche se non hai mai vissuto quella particolare situazione sulla tua pelle, c’è la percezione che potrà succederti, prima o poi.
Una curiosità: quale situazione ha ispirato “Luna”?
“Luna” ha una storia particolare. Alla fine di un concerto mi si è presentata una ragazza con degli occhi tristi, quasi pieni di lacrime, e mi si è avvicinata. Pensavo volesse fare una foto, come sempre, invece si è avvicinata solo per dirmi che non ce la faceva più a vivere la sua vita, mi ha chiesto un abbraccio e poi se n’è andata subito. Non ho avuto neanche il tempo di rispondere, ma mi è rimasta molto impressa. Non sono riuscito nemmeno a chiederle il nome, quindi quindi poi ho scritto questa canzone che parla di Luna, che odia vedere il proprio riflesso sui vetri delle auto mentre cammina.
Una storia molto dolce.
Molto, sì. Ma il bello è che escono canzoni così dirette perché sono figlie della vita senza filtri tra quello che succede e quello che si sente. Anche delle situazioni molto veloci, che possono accadere in pochi secondi, lasciano una bella impronta. È così che cerco di trasformare quello che mi succede in ricordo visibile. È una storia particolare che mi porterò dietro. Non so dove sia questa ragazza, che cosa faccia o come si chiami, ma l’incontro con lei mi ha colpito molto.
Se da una parte troviamo la “verità” di queste ispirazioni, in contrasto con tutto questo c’è la cover del disco, generata con un’intelligenza artificiale.
Sì, la cover è stata generata con l’intelligenza artificiale, non è una fotografia ma un’immagine (che è un concetto abbastanza diverso). Nell’immagine c’erano la mia faccia e le mie mani, ma tutto il resto è frutto di un processo durato otto ore, ad opera di un’intelligenza artificiale.
Per me era perfetta come copertina di quest’album, perché nello sfasamento e nei dubbi raccontati dal disco, figli della contemporaneità in cui viviamo, mi andava di avere una copertina in cui non si capisce esattamente che cosa sia vero e che cosa sia falso; in un mondo che si trova a un bivio tra il vero e il falso, tra il reale e l’artificiale, mi piaceva l’idea di dare un’immagine non dichiarata che sta tra il vero e il falso.
Mi piace questo aspetto, lo trovo molto cervellotico.
È un interessante contrasto rispetto alle canzoni, che sono piene di “vita vera”.
Sì, anche perché non avevo mai dato una mia interpretazione alla palla che c’è in copertina, ma da quando l’ho pubblicata mi sono arrivate tantissime interpretazioni diverse. Fulminacci ieri sera mi ha detto che per lui quella è la Luna della canzone, altri mi hanno scritto che è la pietra del sepolcro dove Cristo sarebbe risorto, altri mi hanno detto che è una vagina e che io sto nascendo. Sono tutte interpretazioni che mi piacciono e soprattutto mi piace il dubbio che crea.
A proposito di Fulminacci, com’è nata la collaborazione con lui?
Nell’album ci sono due collaborazioni nate in modo molto diverso. Quella con Fulminacci l’avevo pubblicata un anno fa ed è una cover di un brano di Fabri Fibra che mi piace molto. L’avevamo suonata quasi per gioco tre o quattro anni fa e quel video aveva avuto una vita propria, arrivando a persone che non seguivano né me né Fulminacci.
Quella registrazione era stata usata come colonna sonora di una serie Netflix [la serie italiana Fedeltà, uscita nel 2022, ndr] e sia io che lui ricevevamo tantissimi messaggi di richiesta di pubblicazione ufficiale. Abbiamo ascoltato queste richieste e l’abbiamo pubblicata. Poi l’ho inserita in quest’album, per darle una casa.
E la collaborazione con Vasco Brondi?
La collaborazione con Vasco Brondi è stata totalmente diversa. Avevo scritto la canzone un annetto fa, mi piaceva l’idea di esprimere vicinanza a qualcuno che ancora non conosco e probabilmente conoscerò in futuro: il cosiddetto “amore della vita”. Non avevo mai scritto un brano per qualcuno che non avesse ancora un volto, ma mi piaceva l’idea e lo trovavo molto poetico.
Sentivo la mancanza di qualcosa, però, e avevo avuto la stessa sensazione di “Povero cuore”, due anni fa. In quel caso avevo chiamato Dario Brunori per completare il brano. La stessa cosa è successa con “Amore mio dove sei”, e in quella parte del brano riuscivo a sentire solamente Vasco Brondi con la sua voce, il suo modo di scrivere e di cantare. Quindi gli ho mandato la canzone con il “buco” dove ha scritto le sue parti.
Per me quello è il successo: siamo riusciti a confrontarci, conoscerci meglio, ci siamo avvicinati artisticamente. Anche dal video si sente e si vede che è successo qualcosa di vero, e mi piacciono tanto queste cose: ospitare nei miei album e nella mia carriera persone che stimo e che sono miei amici. Sono molto fan di queste situazioni. Quando escono cose così è un mistero anche per me.