Lo scorso venerdì 20 gennaio, è uscito “Anita” , il nuovo singolo del Management.
– di Assunta Urbano
foto di Liliana Ricci –
«Anita la mia guerriera
anarchica, romantica
dormi
adesso è finita»
Sono passati quasi dieci anni da quel Primo Maggio in cui abbiamo visto il Management (all’epoca il Management del dolore post-operatorio), per la prima volta, salire sul palco di piazza San Giovanni.
La band si è formata nel 2006, a Lanciano, in Abruzzo. La leggenda narra, a metà tra il romantico e il tragicomico, che le anime di Luca Romagnoli e Marco Di Nardo, rispettivamente voce e chitarra, si siano incontrate tra i corridoi di un ospedale, in cui entrambi erano ricoverati a causa di un incidente.
È partito tutto lì, fino ad arrivare al 2023 con sei dischi, ognuno molto diverso dall’altro.
Dicevamo, quasi dieci anni, e una carriera piena di entusiasmanti avventure, sotto un unico filo conduttore: il cambiamento.
Lo scorso venerdì 20 gennaio, è uscito il singolo “Anita”, in collaborazione con la content creator Germana Stella, in arte Je_Suis_Bordeaux, che ha firmato la copertina ed è la protagonista del video.
Dovevamo parlare del pezzo, in quest’intervista con Luca Romagnoli. Tra la storia del gruppo e alcune riflessioni sulla società attuale, però, la chiacchierata ha preso decisamente un’altra strada.
A distanza di più di dieci anni da “AUFF!!”, se c’è un aspetto costante nel Management è il cambiamento. Cosa significa, per te, rinascere ciclicamente dal lato musicale?
È una motivazione forte per continuare a fare musica. Abbiamo sempre considerato il ripetersi come un aspetto negativo, conformista e soprattutto un delitto verso l’arte stessa. Trovare qualcosa che funziona, ripeterla all’infinito per evitare di fallire è sbagliato. Noi ne abbiamo sbagliate tante! [ride, ndr] Questo ci dà la voglia di proseguire il nostro percorso.
Se non ci si evolve, anche il progetto artistico potrebbe rischiare di rimanere piatto.
In Italia, c’è una concezione un po’ strana, non so se vale anche altrove. Si è convinti che lo spessore di un progetto dipenda dal guadagno e dalla sua popolarità. Invece, ascoltando altri generi e musica internazionale, mi rendo conto che c’è ancora spazio per dare una proposta alternativa. Al di fuori della televisione, delle rotazioni radiofoniche, si hanno sicuramente numeri inferiori, ma si è più liberi e non si deve stare dietro alle mode. Qui, diventi “qualcuno”, soltanto se tua nonna ti vede in tv. Questo non è il nostro obiettivo.
La tua visione si percepisce molto nei testi del Management. Al centro del vostro immaginario e dei vostri racconti ci sono spesso i personaggi, specialmente quelli emarginati dalla società o incompresi da chi li circonda. Da dove viene la necessità di dare nuova luce a queste figure?
Tutto ciò che ci circonda, l’informazione che ci bombarda, il mondo dei social – cose che dal mio punto di vista dobbiamo subire – sono le vittorie degli altri, vere o presunte che siano. Sono sommerso da chi propina vincitori o insegna come diventare tali. Banalmente, se avessi la ricetta segreta, non la condividerei con nessuno. Non ha nessun senso, è evidente che stanno barando. Queste storie dei bellissimi, simpatici fotografabili, imprenditori, ci annoiano da morire.
Noi viviamo in una piccola provincia in Abruzzo e non sentiamo le pressioni delle metropoli. Abbiamo interesse di raccontare l’altra faccia della società, quella vera. Quello che ci arriva è roba patinata, ma la realtà è fatta di gente che fa i conti per arrivare a fine mese e non sta bene. Non è una poesia sull’ultimo, quanto la necessità di mostrare ciò che noi vediamo tutti i giorni.
Dal racconto della verità, viene fuori anche il personaggio del vostro singolo più recente. Chi è “Anita”?
Nella canzone c’è un desiderio di parlare di un amore controcorrente, incapace di accontentarsi del mondo circostante. Viviamo in una società immatura, ancora non pronta per l’amore vero, che forse non esiste più. Siamo attratti da altre cose e siamo ai massimi storici di egoismo. Il nostro obiettivo di successo non ci porta alla felicità. “Anita” è il tormento di una persona che vive male, perché non riesce a esprimere la propria voglia di amare e vede solo banalità intorno.
Parlavamo di cambiamenti ed evoluzioni; in che modo, negli anni, attraverso le vostre canzoni, si passa da un immaginario di donna come “Marilyn Monroe” a una figura come “Anita”?
Dipende dalle tematiche che vogliamo affrontare. In quel caso, si parlava della riproducibilità dell’immagine e delle persone fatte con lo stampino, come se fossero uscite dalla fabbrica. Una catena di montaggio per creare gli esseri umani. Così, anche le idee, le emozioni e i pensieri sono uguali. Sembra che tutti debbano essere informati sulla nostra vita. Come dicevamo in un’altra canzone: «ci riempiono di informazioni, che non ci informano mai di niente» [“Chiara scappiamo”, in “Sumo”, ndr]. Siamo circondati da tante cose, che ci lasciano un vuoto assurdo. Da lì, le malattie più diffuse della nostra epoca: l’insoddisfazione, l’ansia, l’infelicità.
Ciò che si percepisce in questa “nuova” fase Management è un maggiore attaccamento ai testi. Cosa ti ha spinto a dare ancora più spazio alle parole?
Siamo sempre stati così, è un lavoro che io e Marco facciamo e dipende a seconda dei dischi e delle canzoni. Ci diamo spazio l’un l’altro e rispettiamo i mondi di ognuno. Semplicemente, ripartendo da “Ansia Capitale”, ho sentito il bisogno di essere più realista e tralasciare la mia forma di nostalgia e malinconia. Un romanticismo che, ci tengo a precisare, non è sentimentalismo. Mi sono dedicato di più all’osservazione della realtà. Non siamo in un periodo di benessere, né mentale, né emotivo, ma vedo solo un tentativo di sotterrare il dolore. Sembra vietato stare male e trovarsi davanti a situazioni difficili, senza sapere cosa fare, ti impedisce di reagire. Ci dicono ultimamente che siamo affezionati al malessere, invece il nostro è un urlo di vita e di amore.
Trattare questi temi, vi aiuta a essere in un certo senso vicini al vostro pubblico?
Sì, sentiamo il bisogno di questa vicinanza, soprattutto nel live. Ci rido spesso su, ma se ci pensi: come si fa a credere a un artista che in tutta la sua carriera ha parlato solo d’amore? Come può essere sempre innamorato? È davvero così oppure sta selezionando le sue emozioni, scegliendo solo quelle che vendono di più? Mi sembra una bugia enorme. Diventa anche colpa nostra se trattiamo soltanto alcuni argomenti e il pubblico si stanca di ascoltare.
Siamo nel 2023 e sono passati quasi dieci anni dal Primo Maggio che vi ha fatto conoscere a una fetta più grande di pubblico. Pensi che quell’esperienza abbia segnato in modo particolare la vostra carriera?
L’ha fatto in tutti i sensi, sia dal lato positivo che da quello negativo. A volte, le persone si creano delle aspettative su di te. Ti vedono folle, si innamorano della tua pazzia e vorrebbero vedere solo quel lato di te. Allo stesso modo, si affezionano alle tue canzoni d’amore invece che a quelle di protesta e non vorrebbero sentire altro.
Penso che ogni anno, giorno o mese della nostra vita abbia un suo perché. Alcune cose che ho fatto a venti anni, per ovvi motivi non posso rifarle a sessanta. Altrimenti mi sembra di portare una divisa. Quando abbiamo cominciato il nostro percorso, nel tour del primo disco, andavamo in giro con i pantaloni rossi e blu. Ad un certo punto, ci siamo confrontati io e Marco e abbiamo deciso di toglierli, prima che fosse “troppo tardi”. A pensarci, io a ottanta anni come un giullare non mi ci sarei mai visto. A volte siamo noi stessi a crearci le nostre schiavitù. Le regole appiattiscono tutto. Qui stiamo parlando di musica ed è bello variare un po’.
C’è bisogno anche di rompere le regole, no?
Certo, anche la libertà di fare qualcosa di completamente folle il sabato e tornare la domenica la persona di sempre.
“Il Management del dolore post-operatorio non è il male di vivere bensì la gioia del vivere male”. Quanto vi rivedete oggi in questo vostro storico slogan?
Resta in noi costante la gioia di vivere anche il malessere. Si può essere vivi e allo stesso tempo anche perdenti, si può cadere pure senza rialzarsi. Non tutti vincono. Il mondo dello spettacolo ci insegna che forse tutti ce la possiamo fare, ma questa è una grande falsità che prima o poi fa molto male. Soprattutto ci fanno credere che ogni cosa dipenda da noi e non è vero per niente. Possiamo dare tutto, ma non succede comunque nulla. Pian piano la maturità ti porta a fare i conti con la realtà.