“Rush!” è un prodotto completamente industrializzato e i Måneskin sono stati fagocitati da decine di co-autori. Eppure la band di Damiano, Victoria, Ethan e Thomas è ancora meglio dell’insulso pop da classifica
– di Riccardo De Stefano –
C’è sempre il rumore che copre tutto. C’è questo insopportabile ronzio – quello delle decine di migliaia di voci che commentano – che copre ogni cosa, persino la musica. Per cui si parla di paragoni tra brand e femminismo, di corpi nudi che ballano, di sincerità e spontaneità di un genere, e mai della Musica.
Siamo la società dei consumi, del costume, dei social e dei loro filtri, del “prima sei colpevole poi ti processiamo”. Questa cosa non puoi dirla, mentre questa devi.
E quindi si gira sempre intorno, senza mai arrivare al punto, di corsa verso il nuovo argomento, la prossima polemica, di corsa verso il nuovo singolo.
ED ECCO A VOI “RUSH!” DEI MÅNESKIN
“Rush!“, il nuovo disco dei Måneskin, significa proprio “fretta”, o “corsa”, e nulla è stato frettoloso in questi anni come la carriera della band romana, nel giro di un anno catapultata dall’essere l’alternativa al pop-urban locale a fenomeno internazionale e mondiale, culminando in un tour che a Roma ha visto 70mila paganti e un parterre di ospiti internazionali.
“Teatro d’ira vol.1” (QUA LA RECENSIONE) necessitava, dopo il profluvio di singoli sparacchiati per mantenere alta l’attenzione, di un fratellino, e benché del volume 2 non si ha notizie (scommetto che ne sentiremo parlare quando – o se – l’hype sparirà e i nostri torneranno nella loro dimensione domestica), quello che ci arriva è “Rush!”.
Se nella musica sentiamo sempre gli stessi ritornelli, quello più abusato, trito e ritrito è sulla reale natura dei Maneskin: “salvatori del rock” o prodotto di consumo artificiale?
Come detto in questa mia riflessione, commentare se i Måneskin siano o meno rock è semplicemente stupido, oltre che totalmente irrilevante, per cui eviteremo di ripeterci, perché che siano rock o meno non importa a nessuno, o almeno non dovrebbe farlo.
“Rush!” però risponde alla seconda domanda: che tipo di prodotto sono i Måneskin?
CHI SONO I MÅNESKIN?
A mettere di fianco i due ultimi prodotti discografici full lenght, si capisce che di acqua sotto i ponti ne è passata moltissima: un nuovo management, una produzione artistica totalmente diversa e figlia di investimenti – e quindi di placement, branding, indirizzamento e via dicendo – completamente diversi.
“Teatro d’Ira” era un prodotto quasi puramente italiano, con qualche traccia in inglese, un sound scarno e asciutto, basato esclusivamente su riff rock e sulla chitarra di Thomas Raggi, con Damiano David padrone della scena impegnato a sciorinare versi a volte più vicini alle metriche del rap che a un cantato pop (come l’ormai immortale “Fuori di testa” ci ha fatto vedere) e Victoria e Ethan essenziali nel loro ruolo. Il risultato era un prodotto completamente diverso da quello che girava nel panorama musicale italiano, se non addirittura internazionale: un asciuttissimo disco di rock leggero e chitarristico diretto e anche po’ grezzo, non privo di fascino e vincente in almeno due momenti (come le ballate “Vent’anni” e “Coraline”).
“Rush!” d’altro canto non può che essere figlio di una band completamente trasformata. Il piccolo pubblico italiano non riesce neanche a immaginare cosa può significare suonare in un pub a Londra, figurarsi cosa significa essere inseriti nei cartelloni dei più grandi festival mondiali. Per cui tutto quello che l’ascoltatore medio italiano pensa è completamente ininfluente, ignaro di cose enormemente più grandi di quanto pensabile.
In altre parole: i Måneskin sono sicuramente un prodotto – tutto lo è d’altronde – che non è interessato a parlare ai propri connazionali, ma a una platea larghissima, molto giovane, che ha bisogno di punti di riferimento nuovi. Una generazione intera non è stata esposta al rock, fatto ormai di vecchi attempati che girano a 80 anni a fare concerti svociati – o a popstar sessantenni che mettono i biglietti dei loro live tra i 200 e i 300 euro.
La musica rock, sin da Elvis, si è concentrata sull’enfatizzare il desiderio sessuale e la liberazione di questa pulsione negli adolescenti. Su questo, i Måneskin ci hanno costruito la propria carriera, anche estremizzando il messaggio e convogliando tutte le forze in una rappresentazione ostentata – quindi sicuramente posticcia – di una trasgressività visiva. È una scelta di brand vincente, visti i risultati, benché ormai totalmente digerita e innocua.
Ma il punto è che a noi di quello che fanno i Måneskin come comunicazione dovrebbe fregarcene poco. Quindi torniamo alla musica e facciamo quello che nessuno sta facendo: un’analisi critica dell’album.
MA QUESTO “RUSH!” ALMENO È BELLO?
La prima constatazione pratica è che i Måneskin ormai non sono solo una band, ma un team. Un brand, come dicevamo, che dà da mangiare a decine di persone, per cui non si può più pensarlo come un progetto isolato, come cioè quattro ragazzi chiusi in studio a scrivere canzoni. Con investimenti mondiali così importanti nessuna major rischierebbe di bucare un singolo o tantomeno un disco.
Ed ecco che compaiono i coautori per la band, segnando due differenti e completamente diversi approcci interni a “Rush!”.
Troviamo infatti da un lato i pezzi di maggior respiro internazionale, scritti perlopiù insieme a un nugolo piuttosto corposo di co-autori. Tra i nomi nei credits: Benjamin Berger, Rami Yacoub, Nate Cyphert, Ryan Rabin, Joe Janiak, Madison Love, Justin Tranter, Sylvester Willie Sivertsen, Pablo Bowman Navarro, Peter Rycroft, Mattias Larrson, Robin Fredriksson, Savan Kotecha, Max Martin.
Chiaro che con un corpo di produttori, co-autori (più ovviamente i ghost writer) il prodotto risulta completamente diverso da quanto sentito fino alla vittoria all’Eurovision. E infatti “Rush!” si muove sul solco di un pop rock più o meno leggero e più o meno efficace: se “On my own” è sfacciatamente pop, e poteva essere un singolo di Britney Spears o Anastacia, “Gossip” si avvale della nobile presenza di Tom Morello per ricalcare gli stilemi sorprendentemente vincenti di “I wanna be your slave”, duplicati anche in “Bla bla bla”, “Feel” e “Mammamia”, singoli con cassa dritta e tutta l’intenzione di far ballare il pubblico. Una formula ripetitiva che di scrittura ha pochissimo e che punta tutto sulla sfacciataggine della band.
Questo gruppo di canzoni a più mani non può che risultare perlopiù generico e scollato, oscillante tra l’indifferenza e l’efficacia. Emerge una “Gasoline“, lontanissima dallo stile di scrittura e dal suono standard della band (e comunque notevole), e si nota la mancanza di una ballad sincera come “Torna a casa”, mitigata dai tentativi decisamente meno spontanei di “The lonelinest”, altro prodotto poco sincero quanto più assemblato, e “If not for you”, abbastanza di maniera per non fallire né tantomeno farci innamorare.
Ad ascoltarlo così, l’album sembra non dissimile dal rock generico di band come Imagine Dragons o The Killers, di cui personalmente posso tranquillamente fare a meno.
MA I MÅNESKIN DOVE STANNO?
I Måneskin però sono emersi perché erano riconoscibili nei loro limiti e difetti, e benché derivativi, avevano un’anima personale e riconoscibile.
Fortunatamente non tutto è perso. Ecco, nella sua quasi ora di durata, “Rush!” riesce comunque a farci vedere qualcosa di non puramente industrializzato, e sono i pochi brani interamente scritti dal quartetto (almeno ufficialmente), che un qualsiasi orecchio un minimo allenato riesce da subito a riconoscere come “diversi”. E per questo forse anche i più interessanti.
Tra i pochi brani in italiano troviamo “La fine” che è una “Fuori di testa” parte 2 e riesce ad esprimere quella sbruffonaggine piacevole con cui la band aveva spaccato Sanremo. E in maniera simile “Il dono della vita” ci mostra un Damiano che, inevitabilmente, in italiano non ha né può avere co-autori internazionali e quindi “torna a casa”, riuscendo a essere sincero senza indossare la maschera della pop star a petto nudo e pantaloni in pelle a tutti i costi.
E in maniera simile fa, “Mark Chapman”, inquietante parallelismo tra la tragedia lennoniana e l’attenzione ossessiva del fanatico pubblico adorante la band, che ci mostra un Thomas Raggi molto più dentro il pezzo, non mero esecutore ma divertito chitarrista con personalità.
Forse la sorpresa più divertente è la poco seria – in tutti i sensi – “Kool Kidz” che un po’ didascalicamente parla della band in un brano proto-punk cantato alla London 79 e che sicuramente suonerà straniante alle orecchie dei 100 milioni e passa di ascoltatori del falsettino leggero e irritante di “Supermodel“. Un gioco che se non preso seriamente – cosa che sembra impossibile per i detrattori della band – rivela l’anima più simpatica e divertente della band. Un modo cioè di dire “volete le parodie del rock? Ve le facciamo”. Quindi benissimo così.
INSOMMA, COSA È “RUSH!”
“Rush!” è il prodotto di una discografia che sta riempiendo un vuoto. Un album che ha moltissima roba dentro, con molto pop, qualche ballata, qualche riff, una spruzzata di attitudine rock, un sacco di autori, produttori e co-autori, dove ovviamente si confondono i “veri” Måneskin sotto la coltre di brani che devono funzionare e convincere quante più persone possibile.
È la prova che fare musica ad alti livelli è un enorme, grande gioco: se vuoi giocarci, devi accettarne le regole, facendo quello che serve e che forse non è “giusto”, in termini di purezza – presunta – della Musica e dell’Arte. I Måneskin ormai sono un prodotto esportato, poco italiano e molto internazionale, che ha la sua forza nel carisma innegabile dei suoi quattro componenti, tutti essenziali nella creazione di questa immagine proteiforme di mostro pop-rock a quattro teste dove ognuno esprime perfettamente un mood, una qualità, un lato di un carattere che insieme crea un prodotto di grande appeal per più di una generazione.
È la conferma che la musica conta, ma forse non così tanto. In fin dei conti, “Rush!” non è offensivo, è suonato e ha una sua dignità e la possibilità di essere riprodotto nella sua ora senza soffrirne troppo. Molto più sincero e spontaneo di tanti altri prodotti attuali fatti – come questo – in scatola, in serie, pensati per vendere e che si rifugiano solo ed esclusivamente in una coolness legata alle mode passeggere del momento. I Måneskin, bypassando i trend attuali, cercano di essere “cool kids” senza rischio di invecchiare col tempo, in quanto già “vecchi”, già sentiti, già digeriti.
Insomma, pur sempre meglio i Måneskin di tantissimo finto e mediocre pop, oggi chiamato “Urban” o quello che è, che fa le stesse cose per un pubblico diverso, rimescolando gli ingredienti e finendo per essere ancora più posticcio di un album scritto da una trentina di persone.
In fondo, l’unica colpa dei Måneskin è di essere italiani, e nella enorme gara alla mediocrità, nessun italiano vuole sentirsi superato, per cui ecco l’abbaio continuo di pubblico e critica, il ronzio continuo delle voci che commentano e tutto quell’insopportabile rumore. Tanto di tutta questa musica, come di noi, non rimarrà assolutamente nulla.