– di Riccardo Mazza –
“Cuorialcolici” è un EP che vuole parlare di amore, e di per sé non ci sarebbe nulla di male in questo. Ma quando si scrive e si canta di amore bisogna stare attenti. Celebrato in dischi che hanno deliziato le orecchie di intere generazioni e calpestato in altri che è proprio meglio dimenticare, l’amore è un tema che nella musica, specialmente in quella italiana, è già stato sviscerato e raccontato in ogni sua forma.
Fatta questa premessa, la scelta di Cortese di per sé non presenterebbe alcun problema: la musica è uno strumento potente e un pezzo ben fatto potrebbe far rabbrividire anche parlando della consistenza del tavolino su cui sto scrivendo. È così che funziona e a volte il perché va davvero oltre la nostra comprensione. Ma, da un punto di vista più pratico, come un marinaio deve conoscere il suo mare, un musicista deve conoscere i suoi cliché per evitare di cascarci (di nuovo).
E qui la prima critica a “Cuorialcolici”: purtroppo, questo disco presenta dei cliché non da poco. Dico delusione perché Cortese è un cantautore dal grande potenziale, come ha già avuto modo di dimostrare nel suo precedente lavoro (pubblicato nel 2021), “Amore e Gloria“. Alcuni pezzi di questo nuovo EP sembrano però fare di tutto per non valorizzare le indubbie qualità del cantautore salentino.
Qualità che riescono invece ad emergere bene quando la struttura strumentale della canzone lascia respiro alla sua penna. Ad esempio, alla fine della strofa di “Maldidenti” l’incontro con una ragazza viene definito, con un guizzo di anarchia, come la «Cura omeopatica ad ogni malattia sentimentale pregressa». Ma poi le maglie della canzone si chiudono, torna il ritornello, la strumentale esplode di pathos.
«Ma cos’è sto dolore? Forse mi hai sfibrato il cuore, sei come il mal di denti, che non mi lascia riposare».
Qual è il problema? Che il ritornello aveva finito di suonare esattamente sedici secondi prima. La struttura del brano risulta oppressiva e l’esigenza di stampare il ritornello come un trauma nel cervello dell’ascoltatore impedisce alla scrittura di emergere pienamente, rendendo impossibile farci conoscere il dolore che Cortese canta. Ci chiediamo anche noi cosa sia, vorremmo andare più a fondo, ma la parte strumentale si mette fretta da sola. Tutto ciò che otteniamo sono delle immagini, a volte anche molto vivide, ma che non bastano certo a sostenere il testo, che crolla su se stesso soccombendo sotto al peso dello strumentale.
Non fraintendetemi: si sente lo stesso che la malinconica sofferenza di cui si parla in questo EP è autentica e vissuta. Non mancano momenti in cui questo si fa più evidente, ma in generale va detto che essa fatica a emergere, rendendo il tutto troppo macchinoso.
Sarebbe ingiusto non citare i punti in qui questo “mal d’amore” riesce invece ad arrivarci e a mostrarci la sua personalità, come si addice ad un dolore che è stato vissuto in prima persona. Ciò di cui parlo prende forma nelle parole del ritornello di “Bourbon”, incalzanti e incazzate, e si concretizza in una bellissima strofa di “Santoianni”, profonda di registro e di poetica, per quanto breve.
«Potrei tentare di fermare con le mani il tempo che scorre, alzare un argine di parole a proteggermi la faccia»
In questa strofa emerge lo sdoppiamento dell’innamorato ferito, il senso di colpa di chi vorrebbe ripudiare se stesso per quello che sta provando, con le parole che provano a razionalizzare i sentimenti. “Bourbon” è un pezzo riuscito, nonostante il solito (fastidioso) dominio del ritornello nella struttura del brano e una base strumentale (a mio avviso inspiegabilmente) allegra, considerando la tematica del pezzo.
In generale, credo che uno dei problemi di questo disco sia proprio nelle scelte di produzione. I pezzi sono molto pop, spesso overproduced. Questo EP mostra bene che Cortese ha le skills per poter fare di più. L’outro di “Molecole” è bellissimo, un po’elettropop, e ascoltando gli ultimi secondi del viaggio è impossibile non lasciarci scappare un gemito di frustrazione per quello che il disco avrebbe potuto essere. Perché forse quello che manca non è l’abilità, neanche il talento, ma solo un po’ di coraggio.
Concludo con “Gallipoli”, che oserei definire la summa dei problemi di questo disco, con le sue batterie un po’ 90s e dal ritmo veloce. Un pezzo non necessario, senza un perché, zuccheroso e odioso. E si parla (con una trovata geniale e assolutamente mai sentita) di un paragone tra la città pugliese e la bellezza dell’amata. Le immagini evocate sono stantie, il ritornello si trattiene per tutto il pezzo come una litania, la parte strumentale ha la consistenza della plastica, si muove ad una velocità totalmente insensata e sembra quasi venire rincorsa da un Cortese perennemente in un affannoso ritardo.
Il disco soffre dello stesso “male” di cui “Gallipoli” è un esempio lampante: una complessiva mancanza di personalità, sia nei testi sia nei suoni. Inevitabilmente, questa mancanza si traduce in un ascolto dalla pesantezza strana per un EP di sole cinque tracce. Un vero peccato: basterebbe che Cortese si fidasse più del proprio talento.