– di Giacomo Daneluzzo
foto di Erika Lo Iacono –
Se non è mai stata nuova e non invecchia mai allora è una canzone folk.
Questa frase, proveniente da uno dei film preferiti di chi scrive, mi sembra un ottimo punto di partenza per presentare il lavoro Filippo Uttinacci, in arte Fulminacci.
Nato nel 1997, Fulminacci sembra vivere e fare musica fuori dal suo tempo, anzi, più che altro fuori dal tempo in generale. Infatti non stiamo parlando di un artista che sembra non appartenere alla sua epoca, la mia, la nostra; quanto piuttosto di uno che appartiene a questa e ad altre epoche: può sembrare un concetto oscuro, ma penso che andando avanti a leggere ciò che intendo risulterà più chiaro.
Arriviamo al Fabrique di Milano, trafelati, dopo aver preso un sacco di pioggia e di grandine: un acquazzone di inizio estate molto breve – neanche mezz’ora – ma violento. È suggestivo immaginare che questa pioggia possa segnare una sorta di passaggio da una dimensione a un’altra, da una condizione spirituale a un’altra, e ci consenta di arrivare alla nostra destinazione in un diverso stato interiore, di predisposizione ad accogliere ciò che ci aspettava.
Un mare di gente, la coda, gli stretti spazi del club, la folla. Finalmente arriva lui, Fulminacci, l’artista, introdotto da un ironico monologo registrato del comico Valerio Lundini, che non ha bisogno di presentazioni, con cui il cantautore ha collaborato in varie occasioni.
Vestito bene, nonostante il caldo, Fulminacci è un tipo serio, professionale, sul pezzo. A 24 anni sembra essere completamente a suo agio sul palco e col suo pubblico: fa il suo, lo fa molto bene, senza troppe parole (almeno, parole pronunciate senza cantare), pronunciate con un accento romano appena percettibile (non per niente ha una formazione da attore), e i presenti sono entusiasti.
Il pubblico di Fulminacci è come lui: sì, sa le canzoni a memoria, e sì, le canta insieme a lui. Ma, pur essendo molto coinvolto, non è un pubblico invasato, non è una folla urlante che copre l’esibizione dell’artista – come succede spessissimo. È piuttosto un ascolto collettivo, rituale, dell’artista che unisce noi tutti, più contemplativo che partecipativo, più posato che esagitato, più apollineo che dionisiaco. Più da teatro che da club.
O forse un ascolto che, semplicemente, in un’altra epoca sarebbe stato il “modo normale” di ascoltare i concerti; non lo so, perché non ho vissuto in un’altra epoca, ma penso a quando non esisteva Spotify per ascoltare le canzoni di un artista decine e decine di volte prima del concerto, le storie di Instagram e i flash del telefono: non che questo sia un concerto così al 100%, ma la musica qui assume una centralità affatto scontato, per questo periodo storico. Ma non voglio fare la figura del laudator temporis acti, perché Fulminacci è anche un artista di questo tempo, come dicevamo.
E le canzoni di Fulminacci sono delle perle fuori dal tempo – ma di questo abbiamo già parlato – e suonano come tali: dal vivo vengono rese con un’intenzione completamente diversa dalle versioni in studio, oscillando tra epoche e mondi, ma anche tra generi. Non suonano vecchie, non suonano nuove, sono proiettate al futuro, guardano evidentemente al passato.
Fulminacci fa parte della nuova scuola, della nuova generazione di cantautori italiani, certo, ma ne fa parte in un modo strano. Sul palco porta le sue canzoni con lo stesso spirito dei giovani (da un po’) cantautori del vecchio Folkstudio di Roma tra i Sessanta e i Settanta, senza pretese e con tutta la sua carica espressiva. Il suo è un modo di fare musica, un approccio, che lo distingue da tutto ciò che c’è in giro oggi, e il suo live ne è la conferma.
Le ospitate comprendono Matteo Mobrici, ex frontman dei Canova – di cui ho parlato qui e che ho intervistato qui, ma di cui abbiamo parlato anche qui e qui – con cui reinterpreta a sorpresa dei brani immortali come “Niente da capire” e “Rimmel” di Francesco De Gregori, a conferma di quanto ci troviamo effettivamente in una bolla fuori dal tempo, e Willie Peyote per la loro “Aglio e olio”, quasi d’obbligo, per un pubblico affezionato come questo.
E così, tra una canzone senza tempo – “folk” in questo senso – e l’altra, Fulminacci ci porta in un mondo “a parte”, riuscendo a farci dimenticare la nostra frenetica quotidianità, i nostri problemi, le nostre ansie da abitanti del contemporaneo, in un’esperienza di catarsi collettiva. E noi tutti usciamo dal Fabrique portandoci dietro un po’ di tutto questo; guardando, forse, con occhi diversi una Milano notturna, non del tutto addormentata, i suoi marciapiedi ancora bagnati dalla pioggia di prima, e il cielo sopra di lei.