Il post punk, il pop, il rock e poi il suono suonato, analogico, da “saletta prove” che rimanda inevitabilmente ai centri sociali, ai dopo scuola, al tempo inarrivabile delle periferie, quando dentro le strade di confine c’era il vero cuore pulsante di tutto. Eccoli i Carpets & Candles che nascono oggi dentro i nuovi suoni digitali che puntualmente ignorano (o quasi) per dar voce agli amplificatori e a questo esordio interessante dal titolo “Sangue corrotto”. C’è quella vena pulsante del punk italiano, c’è la libertà di essere fatalisti e semplicemente estetici, c’è anche la forza di ignorare i canoni del buon costume e delle mode pettinate. Un disco che ci rimanda agli anni ’90. Inevitabile concentrato di nostalgia pura. Ed è anche bello… per chi ha palato fine da apprezzarlo…
Tappeti e candele. Strano accostamento. Molto barocco, antico se vogliamo. Aristocratico di case nobiliari. Perché questo nome, anche ascoltando il disco…?
Domanda curiosa: quando alla fine della produzione abbiamo ascoltando il disco ci siamo resi conto che, dopo le mille idee i mille riarrangiamenti e la convinzione di aver capovolto i brani altrettante volte, il prodotto finale era qualcosa di inaspettato ma che avevamo dentro a livello quasi subliminale, automatico, di antico; proprio come una stanza in un castello in cui le trame fantastiche di un meraviglioso tappeto vengono illuminate ed esaltate dalla tremolante e lasciva luce delle candele. I tappeti e le candele sono ciò che trasforma la più fredda delle stanze della mente in una soffice e calda alcova, in cui rifugiarsi per godere di quei piccoli e colpevoli piaceri che tutti abbiamo e che in pochi ammettono di avere. E la nostra musica vuole essere uno di quei piaceri. Stiamo scherzando, semplicemente la nostra sala prove è piena di tappeti e candele, ed è stata la prima cosa su cui ci siamo trovati tutti democraticamente d’accordo. In fondo, è solo un nome.
Il punk nella dimensione più italiana e pop possibile. Ci piace assai. Libertà prima di tutto. Vero?
Verissimo: libertà prima di tutto. Noi lo chiamiamo “rock alla mano”. Il disco ha assunto delle sonorità inaspettate, abbiamo cercato qualcosa di primitivo, che emergesse con una certa autonomia e che ci potesse dare anche quel gusto di esaltazione e piacere. Quello che succede in studio è un dialogo: entri con un’idea, ascolti, la rivedi, riascolti, la discuti, riascolti, la confermi, ascolti di nuovo, ci ripensi… e tutto per ricreare qualcosa che fosse il più sincero possibile.
Dall’America cosa avete pescato? E dall’Italia dunque?
Dall’America il bourbon, dall’Italia il caffè.
Un bel giro di giostra dentro i riff anni ’90. Si torna al suono suonato… finalmente diremmo noi. Per voi cosa significa? E come avete eluso le mode digitali del momento?
Questo disco attinge al nostro background: abbiamo cercato di fare quello che trovavamo piacevole e appagante, senza pensare troppo alle mode o a come svincolarcene. Per intenderci, ora se mettiamo il nostro disco in auto – baaam!- lo ascoltiamo tutto dall’inizio alla fine! È un disco suonato e voleva esserlo, fin dal primo momento in cui ci siamo seduti con Luca di Bios Studios e abbiamo deciso che, tra tutto il nostro repertorio, questa selezione di brani poteva raccontare lo stesso intento e farlo con un linguaggio coerente. Anche per questo le varie tracce degli strumenti non sono state registrate separatamente, ma tutte insieme. Esperienza molto interessante frutto dell’esperienza di Luca (BIOS, nd).
Per il prossimo album invece, ascolteremo le nostre coscienze … siamo aperti a tutto! Siamo aperti se vuoi [cit. immoralità]
Ma in fondo l’elettronica ha svolto il suo ruolo nel disco oppure no?
Certo che sì. Il brano “Luna” è quello che più ne ha assorbito il fascino. L’elettronica è parte integrante di questo disco, solo che si è adeguata alle sonorità dei pezzi, e, alla fine, diremo che ha svolto bene il suo lavoro perché è funzionale alle storie che i brani raccontano. In realtà se avessimo avuto un sassofonista o un quartetto d’archi avremmo incluso anche loro!