– di Martina Antinoro –
Nicolò Santarelli, in arte Nostromo, ha pubblicato il 6 maggio un nuovo EP dal titolo “Canzoni per gusto, canzoni per fame” prodotto da Trident Music/Sony. Questa nuova uscita è stata anticipata dalla pubblicazione del singolo “Aprile”, con cui il cantautore ha fatto entrare il suo pubblico in un mondo dal gusto retrò, a cui non manca un pizzico di malinconia. L’EP è stato un momento di rottura per l’artista, con cui abbiamo parlato per sapere come è nato questo progetto e per scoprire cosa significano per lui queste tracce.
Ciao, come stai?
Tutto bene grazie, vengo da un bel weekend.
Il tuo EP “Canzoni per gusto, canzoni per fame” è uscito il 6 maggio, come ha reagito il tuo pubblico?
In realtà è stato molto piacevole leggere le cose che mi hanno scritto perché hanno notato quello che volevo far vedere: al di là del bello e del brutto, c’è stata una crescita, una maturazione.
Da dove nasce l’idea dell’album?
Dividere l’album in due EP è stata una scelta di marketing, inizialmente non me la sentivo nemmeno perché quando le canzoni te le immagini insieme fa strano vederle separate: poi abbiamo deciso di proseguire per questa strada. Con “Canzoni per gusto, canzoni per fame” volevo far capire che questi sei brani che possono sembrare molto distanti tra loro, sono in realtà uniti da un percorso di crescita che nasce da tante domande che mi sono fatto inerenti a ciò che faccio e al perché lo faccio.
Questo EP racconta della primavera e costituisce la metà di un progetto che verrà reso pubblico dopo l’estate, con l’arrivo dell’autunno: come mai hai scelto questo legame con le stagioni?
Non so se posso dire molto, ma poi diciamo che si capirà molto di più. Di base mi sono fissato con questa cosa delle stagioni cercando di capire quale fosse la mia preferita: la primavera. È quasi banale in realtà come stagione: senti quella spinta verso qualcosa di nuova.
“Aprile” è la traccia che hai scelto per lanciare l’album: come pensi che questo brano riesca a rappresentare al meglio questo EP?
“Aprile” rappresenta bene l’EP sia dal punto di vista testuale che musicale: è la traccia che in questo momento rappresenta tutto quel discorso del cambiamento che della crescita. Con questo brano ho capito cosa mi piacesse all’interno del disco, quali suoni, questa chitarra arpeggiata che si ripresenta in tutte le tracce dell’album. Io fatico sempre a realizzare il momento in cui scrivo una cosa e mi rendo conto solo dopo di averla scritta io: penso sempre di non saperlo fare, tanto che scrivo pochissimo. Per “Aprile” ho preso ispirazione dal film di Mainetti “Lo chiamavano Jeeg Robot”, in cui c’è una scena con uomo e una donna in un centro commerciale e lei lo invita a fantasticare sulle persone: vedono una coppia e lei immagina che loro dormano tutte le notti su un letto di fiori, ma non perché sono tristi, perché sono felici. Mi è piaciuta talmente tanto che l’ho segnata sul telefono e quando ho scritto il brano era proprio primavera: quindi ero sul mio terrazzo a Bologna ed è venuta fuori questa storia molto triste che parla di due persone che muoiono.
Qual è la traccia a cui sei più legato? Come è nata?
“Cassetti”. È nata in lockdown, anche se dirlo mi mette tristezza. In fondo, però, è il risultato di quello che per me è stato quel periodo: un lungo momento di autoanalisi perché, vuoi o non vuoi, nella solitudine e in quei momenti noiosi, invece di iper performare, ho provato a farmi delle domande da cui è uscita questa traccia.
Hai dichiarato di aver scritto queste tracce “per gusto e per fame”, che cosa intendi?
Durante la pandemia è venuto fuori il gusto, poi da lì è stato tutto un susseguirsi. La fame invece c’era prima, intesa nella sua accezione negativa. Io mi sento costantemente sotto giudizio, come se avessi sempre qualcosa da dimostrare sia a me che agli altri. In lockdown, anziché buttare giù un pezzo che potesse essere fatto col righello e la squadra per questa fame di approvazione, di arrivare da qualche parte, l’ho fatto per il gusto di farlo. Ed è stata una soddisfazione incredibile: ho iniziato a vedere me in quello che facevo, cosa invece che nel disco precedente non c’era. Di quel disco ho capito poco: sono stato molto assente anche in studio, non capivo quello che succedeva, mentre con questo album è stato tutto diverso.
Cosa vuol dire essere un cantautore nel 2022? Sicuramente la pandemia ha portato profondi cambiamenti all’interno di ognuno di noi e su come interagiamo col mondo esterno.
Secondo me, sono in una fase in cui mi sto ancora chiedendo cosa vuol dire essere un cantautore. Essere cantautori forse vuol dire proprio quello che significa: cantare e scriversi le canzoni. Sono concetti. Se una persona ha qualcosa da dire è giusto che la dica, a prescindere dalla pandemia, dalla guerra, da mille altre cose o semplicemente il nulla che possiamo avere intorno in momenti più tranquilli. Nel mio caso, la pandemia mi ha aiutato a pormi delle domande e poi indubbiamente a volerne parlare.