– di Martina Zaralli –
Lo scorso giugno Trovarobato ha annunciato una collana di stampe in vinile dentro e fuori dal proprio catalogo storico, per esplorare passati sonori e capire possibili futuri, attraverso nuovi punti di vista sulla musica. Il primo volume della collana di ristampe è “Che succede quando uno muore” di babalot, pubblicato nel 2003 per Aiuola Dischi: un album che rappresenta un punto di svolta, se non di partenza, per la musica indipendente italiana che avrebbe seguito i suoi passi. L’ironia amara e malinconica mai banale, anzi, acuta e riflessa su paradossi linguistici di babalot ha fatto di “Che succede quando uno muore” un debutto sghembo e sincero, breve ma intenso come un colpo al cuore, tredici brani senza fronzoli e virtuosismi che affondano le loro radici in quella scuola romana dei primissimi anni duemila dove siedono ai primi banchi i Tiromancino, Max Gazzè e Daniele Silvestri. babalot non solo impara bene la lezione, ma riesce anche a reinterpretarla in chiave personale col suo pop leggero ma profondo intrecciato con contaminazioni elettroniche, gettando così le basi per una tendenza musicale delle generazioni di cantautori a venire. Profetico. Forse.
È arrivata la ristampa di “Che succede quando uno muore” dopo quasi vent’anni dalla prima pubblicazione: che sensazioni ti dà?
La mia opinione sul disco, da ascoltatore, non è mai cambiata più di tanto e non è lusinghiera, come sa bene chi mi conosce. Continuo a pensare che dopo abbiamo fatto di meglio. Comunque gran lavoro di Matteo Cantaluppi nella veste di fonico, produttore, santone indiano e psichiatra, impegnato a far suonare tutto bene, nonostante il massimo impegno del gruppo a stare male di salute, suonare male e litigare.
Cosa rappresentava per te “Che succede quando uno muore” cosa volevi comunicare col disco, nel 2003?
Non credo ci sia un tema o un messaggio unificante nel disco. Volevamo fare qualcosa e dire la nostra nel fantastico mondo del rock italiano. Perché? Boh. Credo fosse anche un escamotage per non essere costretti a decidere cosa fare di serio nella vita, per prolungare ancora un po’ l’adolescenza. E avevamo fretta di trovare un escamotage vendibile ai nostri genitori perché l’età era quella che era (io ventisette anni, Francesco trenta) e nella fretta a volte fai cose senza senso.
Che ricordi hai, legati alla lavorazione del disco e al debutto di babalot?
All’epoca scrivevo i pezzi con Francesco e Devor, ci rimpallavamo idee, passavamo tanto tempo insieme in camera a suonare e ascoltare la roba più disparata. Io spingevo più all’ascolto di cose genericamente hard rock, se non proprio metal, Francesco virava sul folk e Devor aveva certamente gli ascolti più sofisticati: mi fece scoprire i Karate e i Folk Implosion, per capirci, roba che ascolto ancora oggi. Quelli sono sicuramente i ricordi più belli. Tutto quello che è venuto dopo è stato un disastro non puoi aspettarti che un castello di carte resti in piedi sotto un temporale.
“Che succede quando uno muore” ha creato un punto di svolta per la musica italiana indipendente, eppure il disco non è stato compreso fin da subito: vorresti toglierti qualche sassolino nella scarpa al riguardo?
No, francamente capisco benissimo le persone a cui il disco non piacque o non piace tutt’ora. Non sono neanche d’accordo sul fatto che abbia rappresentato una svolta, a dirla tutta. Certo, rispetto a quanto di “romano” girava all’epoca (Tiromancino, Frankie HI-NRG, Piotta, per fare qualche nome) il nostro pop rock era veramente povero e suonato male, mentre a Milano avevano già Bugo. Comunque non penso che in musica esistano le “svolte” fatte da singoli artisti isolati dal mondo, è sempre tutto più complesso di quel che sembra. Ma sì, forse qualche idea in testa a qualcuno l’abbiamo fatta venire in quegli anni, così come probabilmente Sid Vicious ha fatto vendere qualche Precision Bass in più alla Fender.
Come definiresti la musica attuale?
Se intendi la musica italiana, mi sembra che soffra degli stessi identici problemi da sempre. Tante cose belle nell’underground, tanta inutilità ma soprattutto un’enfasi insopportabile nel mainstream. Purtroppo la porta tra i due mondi non è girevole, normalmente chi ha fatto cose belle inizialmente poi va a Sanremo e non fa più nulla di interessante. Da un punto di vista strettamente musicale, mah, non credo di essere la persona giusta per pontificare in materia ma leggo da più parti che viviamo una situazione che non si era mai presentata prima: tendiamo ad ascoltare molta musica del passato, e non solo noi vecchi ma anche i giovani, e ovviamente questa cosa influenza la musica che viene prodotta, che sembra appunto rivolta più a ieri che a domani. Capisco che sia difficile guardare avanti, per tutti e per chi fa musica in particolare.
Ha senso parlare di musica indipendente nel 2022?
Se uno scrive le sue cose senza pensare a che numeri farà, e senza subire (o auto-imporsi) limitazioni di stile e di linguaggio, be’, è indipendente. Ma credo abbia più senso parlare di gradi di indipendenza perché l’indipendenza assoluta è un po’ un concetto astratto a cui tendere, ma che non si realizza mai concretamente, meno che mai se sei un cantautore che campa di ascolti, biglietti venduti per i concerti, merchandising, eccetera. Alla fine se arriva l’aiutino della major, che fai, lo rifiuti? Mica il mutuo si paga da solo, eccetera eccetera. Diverso è il discorso se l’indipendente partecipa in gara a Sanremo, lì secondo me si sta proprio dando la zappa sui piedi, ma cazzi suoi. La visibilità di Sanremo è avvelenata.
Sembra che l’importanza di una canzone o di un disco oggi sia legata ai numeri dello streaming, almeno in una prima battuta. Secondo te, quali caratteristiche deve avere una produzione (brano o disco) per rimanere nella storia?
Banalmente, è probabile che tra vent’anni qualcuno avrà studiato a fondo i motivi per cui quella canzone dei Four Seasons rifatta dai Måneskin è diventato il pezzo più ascoltato al mondo su Spotify, e ci avranno magari anche scritto una o più tesi di laurea. Dubito che tra i motivi ne troverai qualcuno strettamente legato alla musica, cioè alla canzone in sé, alla musica o a quello che dice il testo, dubito che il mondo in quel preciso momento avesse bisogno di un generico pezzo soul anni Sessanta. I motivi per cui i brani di musica pop entrano nella storia sono probabilmente l’opposto dei motivi per cui le composizioni di musica classica entrano nella storia.
Se il progetto babalot nascesse oggi a chi si ispirerebbe tra le proposte degli ultimi vent’anni?
Il “progetto” babalot riparte praticamente sempre da zero. Se prendi “Un segno di vita” (il disco uscito due anni dopo “Che succede quando uno muore”) ci potresti sentire dentro un sacco di cose diverse con cui ero in fissa in quel periodo, una base di partenza totalmente diversa rispetto a prima, e così anche in “Non sei più” e nei dischi successivi. E comunque più degli ascolti secondo me incidono tanti altri fattori, tipo: con chi sto suonando, dove, a che ora del giorno, se mangio in modo sano, se sono sommerso di lavoro eccetera.
L’idea di Trovarobato con la ristampa di “Che succede quando uno muore” è quella di esplorare passati sonori per capire possibili futuri: cosa pensi ascolteremo nei prossimi anni?
Sarà interessante capire di cosa parleranno le canzoni, più che altro. Al supermercato temo di aver beccato l’ennesimo singolo di Jovanotti che parla di estate, spiagge, tramonti, quelle robe lì, e mi sono sinceramente sorpreso di come ancora le persone abbiano bisogno di questa musica generica, di sottofondo, che non dice niente, della cosiddetta musica da ascensore. Ne ha parlato un po’ di tempo fa Francesco Farabegoli nella sua newsletter, e ancora ci penso a distanza di mesi. Ma sto divagando, scusa, la risposta comunque è “non lo so”.