– di Naomi Roccamo
foto di Liliana Ricci –
Accade (da) sempre, ogni volta che ascolto la musica di Luca Galizia, classe 1995, in arte Generic Animal, di provare la stessa, incessante sensazione di quiete e malinconia. La dimostrazione live, la prima per me, non è stata da meno.
È stato facile diventare pensierosa, avvolta tra le luci soffuse del Monk, nonostante la gioia di essere lì, la consapevolezza che la musica è tornata e sta proprio davanti a noi, perché la sua di musica non lascia andare mai veramente via quel velo di nostalgia, rivolta non si sa bene a chi o cosa.
All’inizio ci accoglie Nicolaj Serjotti, emergente al suo primo live fuori dalla sua Lombardia, e riesce a scaldare l’atmosfera di attesa per il main character. Il pubblico di Generic Animal è fatto di buoni, un po’ arrabbiati, un po’ introversi. Forse io non sono propriamente così e infatti mi sento un po’ fuori luogo, un po’ poco affezionata e fedele rispetto al resto della folla.
Poi arriva e ci fa entrare in uno stato di “Nirvana”:
Avrei voluto tanto esserci, ma
Ormai i ghiacciai non li vedrò mai
E con tua madre non litigo più
È la prima volta che suona qui con la sua band, anzi, come ripeterà più volte nel corso della serata, la sua banda ed è visibilmente emozionato: «Sono ancora pelato però. E adesso vi suono un pezzo che mi fa credere di essere Justin Bieber, “Sorry”».
Inizia a cantare alcuni brani del “Piccolo” album, “Benevolent”, poi partono i cori per “Trenord”, “Scherzo” e tutti i suoi “pezzi senza ritornello”.
Tutto è passato in rassegna delicatamente; la timidezza che lo contraddistingue a volte viene smorzata da un umorismo che è un po’ cinico ma sa essere anche dolce: «Se fossi Richard Manson adesso mi tirereste un pollo. Questo concerto è bello perché parlo poco».
Ma è in queste parole lente e riservate che c’è tutto quello che di speciale ha Generic Animal, tutto il compromesso che vive esattamente a metà strada fra un’indole silenziosa e una mente che ha tanto da dire.
Ma marinaio non lo sono stato mai
Benché il mio documento dica il contrario
Che è una fotocopia plastificata e mal falsificata
Che tanto pensan tutti che io sia pazzo
Ma pazzo non lo sono stato mai
Ma marinaio non lo sono stato mai
Allora non c’è più spazio per le parole e parte un intermezzo in cui la chitarra si prende tutta la scena, confermando l’essenza di un autore che è prima di tutto un (bravo) musicista e lasciando spazio alla sua anima emo. Anche il punk trova un piccolo spazietto in una cover personalissima di “I’m Just A Kid” dei Simple Plan, satura di anni 2000 ed MTV.
Un “Broncio”, un “Incubo”, la “Paura di” essere sono il moodboard sentimentale e intimo che guida pensieri che finalmente riescono a venir buttati fuori, chi canta con lui lo sa bene; ci si sente a casa, ci sono dei “riti”, dei linguaggi conosciuti fra chi è probabilmente accomunato dall’ascolto ossessivo di “Emoranger”. Qualcuno si toglie le “Scarpe” e le prende in mano durante l’omonima canzone, qualcuno grida “piango in doccia quando ti ascolto” e lui risponde che piange in doccia anche lui.
I sensibili si prendono la loro rivincita minuto dopo minuto.
«Mi sento stupido, non so cosa dire. Grazie, so dire solo quello».