– di Yna –
CIGNO
“Morte e pianto rituale”
Da De Martino a Pasolini.
Un viaggio nell’irrazionalità dell’uomo
Antidoto alla diversità,
alle guerre
Senza le strade interiori dello spirito non si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo.
Ernst Bloch
Quando io e CIGNO (Diego Cignitti) siamo entrati negli uffici di un locale in un quartiere storico di Roma per fare l’intervista, non trovavamo l’interruttore della luce. Nonostante la penombra permettesse in realtà di distinguerci, ci siamo inizialmente sentiti a disagio nel non poter illuminare tutto, normalmente. Ma poi ci siamo chiesti: «Ma perché illuminare tutto quanto?». Ci siamo quindi arresi alla “miopia”, abbiamo abbassato, forse, la soglia della razionalità illuminista e, in un gioco di rimandi, ci siamo adattati a una nuova normalità. Perchè la normalità è un concetto fissato in alto e regolativo della società umanista, ma non ha necessariamente per tutti lo stesso significato.
Il semi-buio ci ha aiutato a ricreare il setting adatto per parlare del suo ultimo disco “Morte e pianto rituale” uscito lo scorso 18 febbraio, un disco nato in penombra, che parla di popoli, umanità, di guerra e di pace.
Ad agosto 2021 mi sono chiuso a casa, ho abbassato le persiane, ero completamente al buio. Dalle 9:00 alle 18:00 tutti i giorni, tutto spento, a chi voglio bene ho scritto che sarei resuscitato alle 18:00. Sono andato nel mondo dei morti, tutti i giorni. Le visioni che avevo le mettevo in musica, con un lavoro da monaco, metodico, ogni giorno, finchè non sono uscite idee. Spegnevo il cellulare, non volevo vedere nemmeno l’ora, accendevo una candela e quando finiva avevo finito di lavorare.
Ci sono varie cose da dire riguardo a quest’artista. La prima è che il suo disco “Morte e pianto rituale” esce come un’epifania in questo periodo così delicato, la seconda è che lo sarebbe stato in ogni caso. Forse perché tante tematiche sono eterne, rappresentano e costituiscono l’uomo, o forse perché la realtà in cui cerchiamo di navigare a vista ci obbliga a ripensare alla nostra storia, da due anni a a questa parte ormai.
Diego Cignitti, musicista poliedrico, preparato, profondo, meticoloso, ha realizzato un concept album come non se ne vedevano da tempo, un album che in verità il tempo, com’è stato definito dall’era della tecnica, non sa cosa sia.
I numeri sono le cose che dobbiamo combattere. Una concezione anumerica è una concezione che hanno tante civiltà che sono sfuggite alla tecnica. Come ci trasmette Herzog in “Queen of the Desert”: ma che cos’è l’ora? che cosa significa uno due tre? come faccio a dire a mia moglie quando vederci? Il deserto non conosce il tempo. Non è una cosa naturale, ma artificiale; è convenzionale. Basterebbe dire, quindi: «Il tempo di una preghiera e arrivo», oppure: «Quando il sole arriva al rio», o ancora: «Quando finisco di arare il campo», per riportarci al mondo. È un tempo che non è più collegato a un numero, ma al lavoro, nel senso più bello del termine, a un fare, a uno stare nel mondo, oppure a una preghiera, una riflessione, una sensazione. Questa cosa è importante, perché siamo tutti collegati ai numeri, anche la musica: su Spotify ci portiamo dietro il numero di ascoltatori, il numero di streaming, quanti follower hai. Il numero ci opprime, perché ci quantifica.
La quantificazione non è propria di una realtà umana, che non conosce matematizzazioni:
Il consumismo è il numero: quanto vendi, quanto guadagni, quanto riesci a produrre in un determinato lasso di tempo. Sfuggendo a questo numero io mi son sentito molto più libero di creare: il tempo di una candela per me bastava.
Nel 1958 usciva la prima edizione di Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino. È proprio a questo volume che CIGNO si è ispirato per descrivere una cultura che attraverso il pianto rituale non cancella la crisi del cordoglio ma l’accoglie in sé, trasformandola in disciplina culturale capace di mantenere il pathos al riparo dall’irruzione della follia provocata dal dolore della perdita. Riti che risalgono all’antica Grecia, una cultura (forse) dimenticata, ma che è parte della nostra storia e del nostro modo di vivere il quotidiano. A volte ce lo dimentichiamo, ma era il nostro modo di stare al mondo e di darvi valore. A volte facciamo l’errore di dimenticare chi siamo.
Quel periodo stavo leggendo gli scritti di De Martino, che ha studiato tutta la Basilicata, tutto il territorio lucano, l’incastro che c’era tra paganesimo e cristianesimo, questo stare al mondo che è un po’ sfuggito all’umanesimo, alla tecnica. Uno stare al mondo magico, irrazionale, che veniva visto come inciviltà, ma che in realtà è di una ricchezza incredibile. Non esiste solo quello che vediamo, ma tutto ciò che è irrazionale è una dimensione fondamentale dell’umano: esistono sensazioni, emozioni, esiste la “magia”, nella vita, esiste la psichedelia. Nei video di Ernesto De Martino le donne possedute e tarantolate si agitavano per terra ed era bello vedere quanto fosse psichedelico lo stato in cui si trovavano le donne senza assumere nulla. Ed era altrettanto bello vedere come le persone che assistevano non fossero scandalizzate. Col tempo abbiamo imparato a scandalizzarci: ciò che ci ha insegnato la cultura umanistica è di scandalizzarci per delle cose e non per delle altre, di provare disagio stando a contatto con queste realtà.
L’irrazionale diventa direttamente politica, la ricerca di un modo di vivere che non è alternativo, ma è quello più vero e concreto, una scelta che fa politica.
Il disco è politico. Rompe un po’ con la maniera dei nostri tempi, che si basano sulla hit, sul ritornellone, sul catchy, sul titolo accattivante, sul cantante belloccio. Già il titolo “Morte e pianto rituale” è in controtendenza e si assume le responsabilità di una scelta. La politica nasce in risposta alla domanda: «Da che parte stai?», anche rispetto a un fatto minimo. Scegliere è già politica. Dire: «Okay, sì, sto con tutto il resto del coro e faccio la hit» oppure: «No, faccio la follia e faccio la musica che mi piace» è già una scelta politica.
Nel disco ci è entrato anche altro: il disco parla della gente, di una classe sociale che forse negli anni Settanta avremmo chiamato proletariato, che adesso non esiste più. Era un proletariato ricco di identità, che Pasolini voleva che non fosse distrutto, ma aveva già fatto la sua previsione catastrofica, che poi si sarebbe realizzata. Lui parlò della romanità, anche in Accattone; la romanità pian piano sarebbe scomparsa, perché il consumismo, la nuova dittatura del consumo, l’avrebbe fagocitata. Parlando di romanità possiamo parlare anche di lucanità, in riferimento allo stare al mondo in quel modo, non dovere per forza aver fatto più della terza elementare. Io qui sto bene, coltivo la mia terra, credo nelle mie cose, credo nell’irrazionale. Anzi, tutta la vita è gestita dalla sfiga e dall’irrazionale, ma è uno stare al mondo reale.
Forse abbiamo imparato troppo in fretta a disimparare, a rimuovere, perché alcune cose non si registrano su un piano razionale: nonostante i numeri, i fatti, gli accadimenti sanno sfuggire come acqua fra le dita, e si fanno errori imperdonabili, come ricalcare le orme di una storia che fa la guerra tra i popoli.
Viva l’irrazionale. Psichedelico non è solo il rock, Jimi Hendrix, l’America post Beat Generation, gli hippie, ma anche Ernesto De Martino e tutta la cultura lucana, che è stata rubata e snobbata.
La lucanità rappresenta un mondo inaccessibile, ma allo stesso tempo è il mondo più concreto della nostra società, sono le “tracce” (Ernst Bloch) che danno il senso alla nostra esistenza a cui tutti noi dobbiamo tornare, per vederci un po’ più uguali e fare un po’ meno le guerre. E forse cambierebbe anche il modo di intendere l’inciviltà.
Abbiamo visto morire nella croce i nostri attacchi di panico; abbiamo visto morire nella croce le nostre paure; abbiamo visto morire nella croce i nostri pregiudizi. Eravamo drogati di speranza. Non posso rimandare a domani sempre. Gramsci era un uomo cagionevole, eppure vicino alla morte si è dimostrato un gigante. Abbiamo capito l’importanza della comunità dietro uno schermo, l’importanza del rito come catarsi, come liberazione collettiva dal negativo che incombe sulla vita. Insieme possiamo (non) comprendere il senso della vita, ma è una condizione universale sine qua non. Siamo sullo stesso piano: foglie secche di uno stesso albero morente.