– di Manuela Poidomani –
Fin da bambino Francesco Sacco si avvicina al mondo della musica, suonando la chitarra classica, per poi appassionarsi al cantautorato, al blues, alla musica elettronica e in generale al mondo della musica indipendente. Dopo aver lavorato come produttore per altri artisti per diversi anni, nel 2020 esordisce con un progetto solista e pubblica i singoli “Berlino Est” e “A te”, seguiti dal suo primo LP, intitolato “La voce umana” e dal singolo “Pioggia d’aprile”. Parallelamente al suo percorso musicale collabora, come compositore, per brand di moda e di design, produzioni di danza contemporanea e di teatro, sia in Italia che all’estero. Co-fondatore del collettivo di performance art Cult of Magic, per cui svolge l’attività di compositore, regista e Dramaturg, dal 2020 è endorser di Gibson Italia.
“Vestiti” è il titolo del suo ultimo singolo, accompagnato da un videoclip diretto da Agnemag. Il brano, distribuito da Believe Digital, è stato scritto da Francesco Sacco stesso e prodotto da paralisi e xx.buio. Gli abbiamo fatto qualche domanda: ecco che cosa ci ha raccontato!
Al primo ascolto di “Vestiti” ho pensato subito: «È un brano autentico». Quali sono i tuoi riferimenti, gli artisti che hanno ispirato maggiormente il tuo percorso creativo?
Grazie per questa definizione! La “vena cantautorale” mi è uscita di recente, con il mio primo lavoro, “La voce umana”, uscito nel 2020. Prima producevo dischi per altri, più vicini a un mondo sonoro internazionale e più “europeo”.
Da sempre amo il cantautorato italiano, da Francesco Guccini a Luigi Tenco. Apprezzo la scena del nuovo pop italiano, che pone in primo piano i testi: cerco di tenere una balance con la mia visione da produttore.
Nel tuo comunicato stampa si parla di «affrontare situazioni sempre diverse “con gli stessi vestiti addosso”, con un’esteriorità apparentemente sempre uguale, mentre l’intoriorità rimane segreta e inaccessibile». Come si mostra la tua esteriorità?
A livello superficiale più passano gli anni meno penso al mio aspetto. Il discorso dei vestiti, nel brano, è una metafora: è nato tutto un giorno, quando sotto la possa pensavo a che cosa avrei indossato. È difficile raccontarlo, è una percezione… Hai presente quella sfera interiore che è solo tua, di cui non parli a nessuno? È volubile, soggetta a variazioni, si cela involontariamente. Esteriormente, magari, rimani uguale, ma dentro avviene un cambiamento che puoi conoscere solo tu.
Si parla molto di quest’argomento, sui social: influencer e modelli hanno sottolineato come queste piattaforme non mostrino davvero la realtà. Si tende a raccontare una vita appagante, anche quando non è così. “Vestiti” parla anche di questo?
Certo! C’è un aspetto dicotomico tra dentro e fuori e i social mostrano degli aspetti privati ma filtrandoli. C’è una barriera di comunicazione che con noi stessi non abbiamo. Noi ci apparteniamo.
C’è un riferimento a Milano, che «pianta i suoi chiodi dentro le mani di un nazareno». Ti senti incatenato da questa città cosmopolita?
È un discorso difficile. Premetto che a Milano sto molto bene: ci vivo da dieci anni ed è la mia città, penso offra tanto, sia a livello culturale che umano. Questa è una polemica rivolta al mondo economico e riguarda il capitalismo: siamo più consumatori che persone, scarto reso evidente dalla digitalizzazione e da queste ondate di poveri, che banalmente ti portano la pizza o il sushi direttamente a casa. È una città che vive di fretta e che ha degli equilibri complicati, perché è piccola ma contiene troppa gente. In un ambiente così complesso vengono fuori elementi di problematicità: Milano è troppo selettiva.
Nel videoclip la protagonista sembra essere indifferente a tutto ciò che accade intorno a lei. Perché?
C’è un progetto grafico, sia sulla cover che sul video – entrambi realizzati da Agnese Carbone. L’indifferenza rappresenta una persona che attraversa situazioni diverse: formalmente è uguale, ma interiormente è diversa. Il senso di dissociazione della protagonista sottolinea l’essere uguali a se stessi nonostante ciò che accade intorno a sé, si tratta di rappresentare l’irrapresentabile, il cambiamento interiore. È un concetto pittorico, come le avanguardie del Novecento, che a un certo punto hanno deciso di rendere visibile ciò che è invisibile.
Che significato ha il richiamo al far west, rappresentato dalla coreografia e dai vestiti?
È puro citazionismo! Parte della produzione musicale di questo futuro album vuole ricordare il mondo del cantautorato statunitense – per citare un nome: Johnny Cash. Mi piace musicalmente, stilisticamente e dal punto di vista testuale, anche se tradurre il folk americano e le sue regole è difficile. Quindi: vaste prateria da film di Sergio Leone. E il gioco è fatto.
E invece che cosa puoi dirci a proposito dei produttori del brano, paralisi e xx.buio?
xx.buio e paralisi sono entrambi di Livorno. Il primo è completamente diverso da me: un approccio chiaro, quadrato. Poco di fino ma molto efficace. Mi serviva una figura del genere per tenere in piedi l’idea di “folk americano”. Il secondo invece è pop, molto simile a me.
Sono questi, quindi, gli elementi che secondo te distinguono “Vestiti” dal tuo album d’esordio, “La voce umana”?
L’ultima cosa che pubblichi è sempre la più bella. Il complesso del figlio minore è equivalente all’ultimo brano, per un artista, perché correggi quello che ti convince meno della tua ultima produzione. Sento che, questa volta, c’è una sintesi più efficace sulla scrittura. “La voce umana” è molto dilatato, a livello testuale: ci sono pochi ritornelli ed è più vicino al cantautorato italiano, con pianoforte, basso, batteria, al limite anche chitarra e un po’ di elettronica, oltre che un approccio teatrale, un po’ “vecchia Europa”, per intenderci. Invece “Vestiti” si sposta in un territorio lontano e il match è meno rétro: non fa parte della nostra cultura e porta l’ascolto più lontano.
C’è un omaggio al teatro anche perché tu sei legato anche a questa forma d’arte. Come pensi che si possa fare per aumentare la considerazione del pubblico nei confronti del teatro? Pensi che coniugare musica e teatro contribuisca ad andare in questa direzione?
Sono poco generoso con il teatro italiano. È percepito come vecchio perché è vecchio. Esiste una scena fresca in Nord Europa, una serie di avanguardie, con tempi più vicini allo spettatore di oggi. In Italia la maggior parte dei teatri stabili porta avanti un discorso di tradizione che chiama a sé solo un pubblico datato. Io mi occupo di un teatro contaminato dalla danza contemporanea, un progetto sperimentale. Lavorare in entrambi i mondi mi ha permesso di intrecciare le cose e il teatro mi ha insegnato, per esempio, il valore del dettaglio. La visione registica l’ho portata nella musica, mentre nel teatro ho portato un approccio pop, punk e anticonvenzionale.
Prossimi progetti? Live?
Dopo il COVID, quando tutto ha iniziato a riaprire, c’era l’ansia di fare. Ora sto cercando di rallentare un po’, perché sento un grande bisogno di raccoglimento, per completare il disco. Voglio stare nel mio e proseguire con la produzione