RESISTERE AL POP
Sanremo è una grande scatola, lo ripetiamo anche qui. E va benissimo che ci siano Mahmood come Fabrizio Moro, come Yuman e Iva Zanicchi, come Le Vibrazioni e persino Ana Mena. Tutto viene rappresentato e nessuno si aspetta i ribaltoni senza senso.
Ma, se non ci pensiamo noi, che mettiamo una firma ai nostri articoli, a tracciare una linea su quello che meriterebbe di vincere e quello che poi ha successo di pubblico, chi lo fa? Chi lo farà?
«Eh, ma dai, un po’ di leggerezza non guasta!» – sento spesso dire.
E questo sarebbe vero, ma dov’è il resto? Dove sta la sostanza? La leggerezza, che come diceva Calvino non è superficialità, va benissimo, se avessimo di fianco qualcosa per cui pensare, di cui parlare senza ridursi al meme o alla battuta.
Questi anni di lockdown ci hanno tolto gli spazi per proporre qualcosa che non fosse pop, che non fosse leggero e vacuo, che non rappresentassero la voglia di disimpegno nauseante a cui siamo sottoposti nelle radio, sulle playlist Spotify, costretti a cercare nei meandri della discografia qualcosa a cui appigliarsi, nel momento in cui nessun concerto e nessun artista “di nicchia” ha potuto fare qualcosa negli ultimi ventiquattro mesi.
COSA FARE A SANREMO E COSA NO
La serata delle cover ha avuto due momenti emblematici: l’esibizione di Giovanni Truppi e di sangiovanni.
I due Giovanni hanno preso mostri sacri della canzone d’autore e li hanno frullati sul palco di Sanremo, con due risultati opposti.
Ci vuole coraggio a cantare “A muso duro” di Pierangelo Bertoli, quando quella canzone canta il disprezzo per tutto quello che sangiovanni rappresenta. Ci vuole coraggio a cantare: «Adesso dovrei fare le canzoni con i dosaggi esatti degli esperti, magari poi vestirmi come un fesso e fare il deficiente nei concerti», quando il pop di sangiovanni è costruito a tavolino dagli esperti di TV e di musica per adolescenti e poco più. Un vero insulto alla memoria di un artista che davvero ha combattuto la propria guerra per la libertà di pensiero senza compromettersi mai.
D’altro canto, ci ha pensato Truppi a ricordarci il senso della musica, il ruolo e la funzione che la musica può e a volte deve avere, anche in quel palco così leggero – e pesantissimo.
“Nella mia ora di libertà” è stata criticata per l’arrangiamento minimale e per la performance “piatta” di Truppi e Vinicio Capossela (più l’appoggio e l’assenso di Mauro Pagani, lì a fianco con l’armonica). Ma se solo ci prendessimo un attimo un momento per capire il senso di quella canzone, davvero, dovremmo solo stare zitti.
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL POP
A Sanremo, Truppi era quello della “canzone strana” e delle canotte, che oddio, sono oscene (più della gente a petto nudo, a quanto pare). Ma Truppi è rimasto Giovanni Truppi, non è andato lì a fare le scenette e le pagliacciate, a urlare idiozie per fare punti al Fantasanremo. Ha usato quel palco per rimanere coerente, sfruttando la serata delle cover per lanciare un messaggio.
Dire in prima serata RAI che non esistono poteri buoni, che è un delitto il non rubare quando si ha fame è un gesto, oggi, forse ancora più rivoluzionario e violento di quando fu scritto. In un momento in cui tutti gli artisti sguazzano nella insostenibile leggerezza del pop, persino quelli più interessanti, portare qualcosa che ti fa concentrare sulle parole e sul senso è un gesto di resistenza.
Dispiace davvero tanto vedere un progetto come quello de La Rappresentante di Lista, che in passato aveva cantato così bene e con tanta poesia il corpo femminile, le tragedie e l’orrore del “Panico“, scivolare con leggerezza nel pop da discoteca senza il minimo dubbio, provando (e forse neanche riuscendo) a sfondare in radio per diventare qualcosa che non erano.
E di contro commuove Truppi che pubblicamente rivendica il messaggio civile e sociale dietro la scelta de “Nella mia ora di libertà”, non solo un giochino musicale, ma un veicolo di contenuti e idee che dovrebbe in qualche modo farci ricordare cosa possano ancora essere le canzoni. Però, certo, l’arrangiamento poteva essere più coinvolgente. Be’, godetevi le vostre dita che sicuramente sono più affascinanti della Luna.
CERTO BISOGNA FARNE DI STRADA
La leggerezza, che cosa abusata. Ma ripeto, ci sta, il pubblico vince sempre e dobbiamo accettarlo.
Accettare comunque che non si può proporre qualcosa di più profondo di un vago malessere sentimentale, di una malinconia d’amor perduto che diventa “profonda poesia”. Stemperata e spezzata dalla voglia di ballare e dagli uptempo stile musicarelli anni Sessanta, cantati dai simpaticissimi interpreti della musica leggera italiana.
Rimane il senso di profondo scoramento nel vedere sparire in silenzio la possibilità di far emergere “l’altro”, che esiste e resiste nei canali di scolo dell’industria discografica, dileggiato e disprezzato persino dai professionisti della stampa che con miopia, se non totale ignoranza, celebrano la vacuità del messaggio di un Moro o di un Morandi qualsiasi, rimarcando come la sconfitta sia per chiunque voglia continuare a dire qualcosa di “diverso”.
Non abbiamo bisogno di altra leggerezza, perché ci scivoliamo sopra da troppo tempo. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi che scrivere e cantare una canzone già di per sé è un gesto rivoluzionario, dirompente, e che se accettiamo selvaggiamente questa situazione, arriveremo a un punto di totale indifferenza verso quello che ci faranno ascoltare, da cui non si tornerà più indietro.
Troviamo un modo per resistere all’insostenibile leggerezza di Sanremo.