– di Martina Rossato –
Marco Sambinello pubblica il suo primo disco, “La parte migliore”, nel 2019. Il suo nome di battesimo gli sembra poco adatto a un progetto musicale, allora da quel momento decide di chiamarsi Sammarco. Dopo l’uscita del singolo “Niente di speciale”, ha da poco pubblicato “Tutte le cose che di te vorrei bruciare”, il suo nuovo EP. Le sei tracce che lo compongono sono semplici e dirette, ma racchiudono tutta la sua poesia.
Abbiamo chiacchierato un po’ al telefono. Dopo avermi raccontato del suo lavoro in radio, gli ho fatto qualche domanda sul suo ultimo album.
Vedere il 2022 come data di uscita dell’album su Spotify mi ha fatto un certo effetto, com’è pubblicare un album adesso?
Nel mio caso specifico è come pubblicarlo in qualsiasi altro anno. La mia realtà musicale è molto piccola: siamo io, le mie canzoni e le produzioni. Ho lavorato a questo EP con lo stesso produttore del primo disco e devo dire che non è l’anno a influenzarmi particolarmente, però c’è stata una influenza pandemica. Il Covid ha avuto un importante impatto sulla realizzazione di questo lavoro.
Anche sulla pubblicazione?
Sulla pubblicazione no. Avrei potuto fare uscire l’EP prima o dopo, anche perché la musica è un hobby per me, per quanto sia un hobby bellissimo e nel quale metto tutto me stesso, come se fosse il mio primo lavoro. Se dovessi campare di cantautorato, sarebbe stato un bell’inghippo pubblicare nel 2022.
Il tuo primo album è uscito nel 2019. Cosa è successo nel frattempo?
Rispetto al primo EP sono cambiate varie cose nella mia vita personale e le due produzioni sono slegate. Io scrivo tanto, ma ci sono periodi specifici in cui sono più produttivo, soprattutto quando mi sento trascinato da certe sensazioni – specialmente se negative – che provo.
Tra il 2019 e il 2022 è successo che ho suonato e “grazie” al Covid ho vissuto un periodo carico di emozioni, alcune positive, molte altre decisamente meno. Verso la fine del primo lockdown mi sono trovato a casa, da solo, lasciato dalla ragazza. Avevo bisogno di esorcizzare quei sentimenti negativi, il tutto unito al non poter sfogare la tristezza con delle sbronze insieme agli amici [ride, ndr]. Mi sono trovato a fare l’unica cosa che mi facesse stare meglio: scrivere canzoni.
Quando ho scritto il primo disco ero appena uscito di casa, ero stato poco bene ed era pure morto il mio cane. Ho la fortuna di poter comporre quando mi sento più ispirato, senza la pressione che avrebbe un professionista della musica, quell’ansia di trovare un’etichetta o scrivere per forza entro certi tempi.
Poi mi piace anche la parte realizzativa e di produzione, oltre a quella di scrittura a lume di candela con una boccia di vino all’una di notte [ride, ndr].
Come hai conosciuto il tuo produttore?
Come ti dicevo lavoro a Radio Popolare, a Milano, e lui [Giuliano Dottori, ndr] ci è passato più volte, suonando con gli Amor Fou o anche come solista, a fare ospitate, interviste, live o concerti in auditorium. Quindi ci siamo conosciuti per lavoro, poi è nata una bella amicizia. Mi piaceva l’idea che producesse le mie canzoni, proprio perché adoro il suo progetto. Quando ho saputo che ha uno studio di produzione, ho pensato subito a lui. La cosa bella è che gli ho scritto, gli ho mandato i provini e abbiamo cominciato a registrare.
Se non c’è un rapporto di amicizia e di fiducia tra musicista e produttore, il lavoro non funziona.
No, infatti. Anche se il produttore deve essere severo e distaccato, perché se no rischi di farti trascinare tra le mille paranoie e paturnie del musicista, che nel mio caso sono tante [ride, ndr].
Quanto ci avete messo a registrare?
Il tempo è relativo, nel senso che un EP di sei brani come il mio si può produrre in più o meno tempo. Con il nostro modus operandi ci abbiamo messo più o meno quattro mesi, diluendo bene il lavoro. Abbiamo iniziato a produrre a fine 2020. I pezzi li avevo scritti tra aprile e maggio di due anni fa, poi li ho lasciati lì un po’ a prendere polvere e verso ottobre li ho ripresi in mano. Dopo il mix di Max Lotti e il mastering di Giovanni Nebbia sono passati altri nove mesi circa per trovare il modo giusto di farlo uscire.
Venendo al disco, mi sembra di cogliere varie citazioni nell’EP, quali sono le tue influenze?
Allora, con il disco nuovo le influenze si possono trovare o meno, nel senso che credo che si notassero decisamente di più nel primo album. Quello che ascolto di più negli ultimi anni è l’indie folk americano, che non ha molto a che fare con il cantautorato italiano, ma adoro anche la scena indie pop italiana degli ultimi anni, Calcutta, Brunori.
Beh, il singolo si intitola “Niente di speciale”, come quella de Lo Stato Sociale.
Sì, Lo Stato Sociale anche! L’indie italiano mi piace, conosco almeno qualcosa di tutto, però le mie influenze principali sono proprio legate al folk americano: Sufjan Stevens, Bon Iver. Nel video c’è “Carrie and Lowell” di Sufjan Stevens, che è il mio album preferito ed è stato molto importante a livello di ispirazione produttiva per il disco del 2019.
In questo avremmo potuto seguire ancora quella strada: avevo valutato l’ipotesi di fare un EP ricalcando gli arrangiamenti del primo disco. Però poi ho chiesto a Giuliano di fare qualcosa di un po’ più tendente al pop. Avevo voglia di provare a cimentarmi in qualcosa di diverso. “Niente di speciale” è una canzone che avrebbe senz’altro potuto prendere altre vie produttive, magari meno ricche di strumenti, invece l’abbiamo stratificata di più con basso, batteria e tastiere. L’obiettivo era renderla di più facile fruizione e vedere cosa veniva fuori. Se il vecchio disco era più indie folk, questo è più indie pop, ed era una scelta voluta.
In questo disco parli di amore, anche in modo un po’ totalizzante.
Sì, è proprio l’argomento. La spinta a scrivere queste canzoni deriva dalla fine di una relazione all’interno di un momento difficile per tutti. Non sono l’unico a cui è capitata questa esperienza mistica [ride, ndr]. Non sono uno che riesce a scrivere canzoni parlando, che ne so, di fatti di cronaca o ispirandomi a un libro che ho letto. Scrivo in modalità flusso di coscienza quindi non riesco a non lasciarmi influenzare da quello che sento in quel momento. Mi premeva l’elaborazione di quel fatto, unita alla reclusione.
Sì, infatti si sente molto e tra l’altro, non viene fuori una bella faccia dell’amore, insomma: “Tutte le cose che di te vorrei bruciare”. Al tempo stesso però dici: «Sei l’unica cosa che vorrei adesso».
Be’, sì, certo, ma è normale. In quei momenti si passa dall’odio più totale al desiderare che le cose tornino com’erano prima. Queste sono sei canzoni, che sono state scelte tra molte di più, in relazione anche al fatto che funzionano bene fra di loro, ma è inevitabile che ci sia un mix di sensazioni dovute alle varie fasi. Alcune canzoni sono più arrabbiate, altre più malinconiche.
Pensi ci sia una tua canzone particolarmente arrabbiata? O il contrario, una in cui hai messo più dolcezza.
La più dolce è sicuramente “Il giorno di Natale”, che è nel vecchio disco e parla del mio cane.
Sai che forse sulla rabbia non riesco a darti una risposta. C’è sempre tanta malinconia, però rabbia non lo so. In “Niente di speciale” c’è un po’ di rabbia nel verso: “Tutte le cose che di te che vorrei bruciare”, sì. Anche se è una canzone che saltella tra due fasi, quella del sentirsi forte e subito dopo incapace di reagire.
Credo sia una cosa positiva che non riesci a trovare rabbia nei tuoi pezzi.
No mi sa proprio che nelle canzoni è uno dei sentimenti che butto fuori di meno.
Ti faccio un’ultima domanda: quando Marco ha deciso di diventare Sammarco?
Ho iniziato a suonare la chitarra che avevo quindici anni. Il mio migliore amico la suonava e non volevo essere da meno, questo è stato il nobile inizio [ride, ndr]. Poi ho attraversato tutte le fasi dell’adolescenza in cui volevo far parte di band punk, rock, metal, un po’ di tutto. Intorno ai vent’anni ho cominciato a scrivere canzoni, all’inizio in un inglese un po’ maccheronico, poi in italiano.
Ma no dai, perché dici maccheronico?
Ma sì, sai, l’inglese di un adolescente non madrelingua [ride, ndr]. Poi ho trovato una band, in cui ho dato spazio alle mie canzoni: avevano piena fiducia in me dal punto di vista creativo. All’inizio non cantavo, ma quando ci siamo trovati senza cantante ho cominciato a prendere io il suo posto.
Con loro abbiamo registrato qualcosa, ma poi abbiamo preso direzioni diverse, la band si è sciolta e mi sono trovato da solo. Lì Sammarco non esisteva ancora, ma quando ho finito di scrivere il primo disco volevo un nome d’arte: il mio nome e cognome secondo me non funzionano. Ho fatto una specie di crasi tra nome e cognome e ho creato Sammarco. Una volta il nome della band o del cantautore era più evocativo, negli ultimi anni non mi sembra che sia tanto il nome a fare la differenza, anzi oggi i nomi sembrano quasi generati in automatico da qualche pallottoliere. Sammarco è un nome che mi sono sentito subito, mi piace.