– di Paolo Pescopio –
Devo ammettere che ascoltare un album di Andreotti mi fa strano. Niente di personale, ma sapere che la musica che sto ascoltando è firmata così mi trasmette una sensazione alquanto bizzarra. A rendere il tutto ancora più strano, il fatto che non conosco il nome di battesimo di questo artista, che ha deciso – come spesso accade – di non renderlo noto al pubblico.
Così, senza sapere chi ci sia dietro all’artista che prende in prestito uno dei nomi più conosciuti della Democrazia Cristiana, mi approccio all’ascolto di “Accollo”, il terzo album di questo buffo soggetto. La prima impressione è quella di trovarmi di fronte a un tentativo disperato di creare attorno al disco un’aura non solo vintage, ma anche un po’ di mistero. Andreotti vorrebbe farci rivivere anni che le nostre generazioni non hanno visto, e per farlo si avvale degli strumenti che la tecnologia di oggi gli offre. In effetti, il primo elemento che mi lascia stupito è il contrasto tra la ricerca di un suono che risulti essere un po’ datato e i testi, che invece sono molto attuali. Ad esempio, ci sono riferimenti ai social network e al mondo della musica di oggi che risultano un po’ anacronistici quando ci lasciamo trasportare dalle atmosfere vintage dei brani.
Curioso. Senz’altro è un album curioso, e che incuriosisce chi lo ascolta. Uscito il 31 dicembre, dopo i singoli “Inverno”, “Natale” e “Invecchierai”, è un album che proprio non si vuole scollare dal passato, che resta simbolicamente ancorato all’anno vecchio ma che strizza l’occhio al futuro.
Che Andreotti volesse continuare ad accollarsi al passato, era già chiaro dai suoi primi due lavori in studio, “1972” e “1973”. Brani come “Righeira” ci fanno ben capire a quali anni guarda con quasi ironica nostalgia; la stessa nostalgia che può provare un ragazzo nato nel 1993, come Andreotti, senza aver mai vissuto in prima persona quelle esperienze, che fanno comunque parte dell’eredità italiana. Il che può essere un pregio oppure un difetto: il rischio è che suoni come un album che non vive nel suo tempo.
Il sound è un misto tra il synth pop, a cui siamo ormai abituati e a cui si alternano rimandi al mondo della psichedelia. Anche l’utilizzo di un microfono con quel suono un po’ compresso e ovattato à la Andrea Laszlo De Simone è una scelta interessante, come affascinante è la scelta di incidere su registratori a nastro anni Settanta. Importante è l’utilizzo della sezione ritmica e delle percussioni, a tratti anche molto insistenti, che contribuiscono a rendere l’album tutt’altro che noioso.
Personalmente, penso che la piccola pecca del disco siano i testi, che ho trovato un po’ troppo tendenti al cliché, anche se utilizzato in maniera ironica. In realtà, non è detto che sia da considerare come aspetto negativo: si tratta pur sempre di un elemento che contribuisce a conferire al disco una dimensione diversa, del tutto personale e distaccata. Certo, non citerei Andreotti tra quegli artisti che scrivono testi talmente belli e profondi da poter essere letti come poesie, quasi da metterli in un’antologia, ma dubito fortemente che sia nelle intenzioni dell’artista. I suoi brani hanno un obiettivo diverso, vogliono piuttosto metterci in prospettiva e farci vedere le cose dal punto di vista dell’autore.
Andreotti – chiunque egli sia – è un compositore decisamente molto prolifico, e che non sembra avere intenzione di rallentare la propria attività musicale. Nel 2022 ha già pubblicato due nuovi brani, “Passerà” e “Naziskin, Måneskin, Orietta Berti e Bruce Lee”, in cui non manca l’ironia che lo caratterizza.
Non ci resta che attendere le nuove pazzie di questo inconsueto, ma sicuramente divertente, artista.