– di Martina Rossato –
Dopo sette anni dall’ultimo disco di inediti, Cristina Donà ha pubblicato il 3 dicembre “deSidera”, un album profondo e interessante. Il disco, prodotto in seguito a una fortunata campagna di crowdfunding, ruota attorno al concetto di “desiderio“, a partire dall’idea di mancanza. Non è un disco leggero, necessita un attento ascolto per essere compreso.
Anche per questo, è stato prezioso parlare con l’autrice per cercare di capirne anche gli aspetti meno semplici.
Comincerei a parlare di “deSidera”. Mi ha colpita molto la grafia, con il de minuscolo e la S maiuscola, come a voler sottolineare quel de, quella mancanza.
È stata una scelta che voleva creare un gioco di parole tra l’etimologia della parola desiderio, de sidera che andrebbe scritto staccato e la parola desidera, che può essere un imperativo o la terza persona del verbo desiderare. Mettere l’etimologia della parola ci sembrava troppo altezzoso. La s maiuscola sottolinea la provenienza di questa parola.
Da quale mancanza nasce questo album?
La mancanza è un tema ricorrente nella mia scrittura, e in questo album ci siamo accorti – parlo al plurale perché è sempre un lavoro di squadra – che più che in altri album, la mancanza era un tema ricorrente. Ci sono varie nature di questa mancanza, quella che sottolineo di più è quella legata al desiderio. Il desiderio nasce dalla mancanza di qualcosa che cerchiamo fuori di noi, è la sua versione più nobile, più bella, è una mancanza che cerchiamo di riempire, è un processo di completamento. L’album sottolinea anche quanto questo vuoto, che è caratteristica dell’uomo, è spesso il risultato di una società. La società in cui viviamo stimola in continuazione il bisogno di desiderare qualcosa, anche cose materiali. Questa insaziabilità può causare dei mostri, che ad esempio la pandemia ha messo in luce, ma era già tutto pronto da molto tempo.
Come metti in relazione questo desiderio con il tuo disco?
Come tutto, anche il desiderio ha una matrice in natura, ho scoperto riascoltando l’album quando aveva assunto una forma definitiva che ciò che avevo voglia di sviscerare era proprio questo: il fatto che non ci facciamo mai abbastanza domande sulla conseguenza della soddisfazione dei nostri desideri.
Comunque tutti i brani sono stati scritti prima della pandemia.
Sì, ho voluto sottolineare questo aspetto nel comunicato stampa perché un album così, con canzoni tanto cupe per certi versi, sicuramente introspettive, anche critiche rispetto al nostro stare su questo pianeta poteva sembrare il frutto di ciò che sta succedendo, in realtà la pandemia ha solo sottolineato e creato uno squarcio sulle caratteristiche meno belle e più critiche della nostra società. Sono aspetti che secondo me andrebbero indagati.
Come vivi questi aspetti meno belli del nostro mondo?
Non è semplice cambiare le nostre abitudini, lo vedo soprattutto su me stessa. È un album di riflessioni soprattutto rivolte a ciò che sono io, a quello che faccio tutti i giorni e alle mie abitudini. Mi rendo conto di quanto sia complesso cercare una strada nuova, anche quando pensiamo di consumare meno e meglio oppure di desiderare meno e meglio. Solo che siamo continuamente stimolati, abbiamo la necessità di consumare. In più, viviamo in una struttura economica che non ci permette di cambiare strada. Come consumatori però abbiamo ancora qualche possibilità di dare un segnale attraverso le nostre scelte.
Anche se attraverso riflessioni molto personali, l’album riguarda tutti noi in fondo. Parla dell’esistenza, in modo anche cupo, come hai appena detto tu. È una scelta coraggiosa, in questo momento.
Sì, coraggiosa sicuramente, ma non potevo fare altrimenti. Intanto, l’album era già stato fatto, avrei potuto anche archiviarlo e scrivere altro, ma credo che in un momento storico così sia più utile fare delle riflessioni. Rispetto a qualche anno fa si è palesata la gravità della situazione in cui ci troviamo, tutto si è esasperato. Non mi piace fare finta di niente e penso che questo sia il momento giusto per guardare più in profondità. Per farlo, va anche bene la leggerezza, l’ho cantata negli ultimi due anni e non la disprezzo, però adesso penso bisogni fare qualche riflessione in più. Chi avrà voglia di ascoltare, spero abbia anche la pazienza di trovare la voglia di riflettere insieme a me su temi che ritengo fondamentali.
Certo, penso sia fondamentale fermarsi a riflettere. Però, devo anche ammettere che, ascoltando l’album e soprattutto arrivando verso la fine, speravo in un lieto fine. Invece, mica tanto [ride, ndr].
Ci sono degli sprazzi di solarità nel disco, ma è vero, già mentre scrivevo mi rendevo conto di questa stratificazione, anche grazie al lavoro che ha fatto Saverio Lanza come produttore e coaturore della parte musicale: ero (e sono) consapevole che c’era qualcosa che mi andava di lasciare come eredità ed era una richiesta di ascolto più profondo. Per entrare in questo disco bisogna ascoltarlo cinque o sei volte e in un momento in cui viaggia tutto alla velocità della luce e tutto è semplificato, ho preferito azzardare un’altra strada.
Poi parli dell’«insostenibile leggerezza delle canzoni», per cui volevo chiederti che ruolo dai alla musica nella tua riflessione.
La musica mi ha salvato la vita, nel senso che mi ha dato una chiave di lettura diversa e mi ha permesso di esprimere una parte fondamentale di me, che nella vita di tutti i giorni è completamente nascosta. Quando scrivo, trovo un ordine che non riesco a trovare in altri modi, se non quando passo del tempo con le persone cui voglio bene o facendo una passeggiata nel bosco. Questo mi è molto chiaro da sempre, anche in quanto ascoltatrice, anche perché ho iniziato a scrivere molto tardi. L’«insostenibile leggerezza delle canzoni» è un omaggio a “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera. Mi andava di citarlo, per il contrasto molto complesso del desiderio, che è al tempo stesso insostenibile e leggero.