– di Riccardo De Stefano –
Matteo Mobrici, noto semplicemente come Mobrici, ex leader dello storico gruppo indie Canova, con cui ha pubblicato gli album “Avete ragione tutti” e “Vivi per sempre”, è fuori ora con il suo atteso disco d’esordio solista: s’intitola “Anche le scimmie cadono dagli alberi”, è uscito per Maciste Dischi (come i precedenti) e Virgin Records ed è prodotto dallo stesso Mobrici insieme ad Antonio Filippelli. L’abbiamo recensito qui.
L’abbiamo incontrato per parlare di questo disco, del suo percorso solista, dell’esperienza con i Canova, della sua visione sul mondo della musica e di molto altro. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Siamo alla fine di un 2021 che non ci aspettavamo proprio così. Come non ci aspettavamo nemmeno un 2020 così, con il lockdown e tutte le cose che sappiamo e ci torturano ogni giorno. Tra tutto quanto, il 2020 ha visto il collasso di una delle grandi band dell’indie italiano.
Del mondo!
Com’è coincisa questa cosa? Casualmente, una concomitanza di eventi, perché la vita è balorda?
Ma no, guarda, la verità è che purtroppo quando sei una band devi mettere in conto che tutto può finire. In questo caso la mia non è stata una scelta. Durante il tour del secondo disco il bassista [Federico Laidlaw, ndr] ci ha detto: «Ragazzi, io voglio cambiare vita, senza il male di nessuno» e a quel punto cosa gli dici? Solo che poi siamo rimasti in tre e io non lo trovavo coerente, non mi piaceva l’idea di prendere qualcuno al suo posto e pur rimanendo in tre – a fine 2019 erano usciti tre pezzi – le cose non funzionavano, c’era una brutta atmosfera. Una band funziona coi suoi elementi originali, a prescindere dai ruoli che si hanno, e il fatto che uno se ne fosse andato è servito poi per l’epilogo finale. Tra l’altro io ho continuato a fare quello che facevo sempre, a scrivere canzoni, però è una roba che non avrei voluto. Poi mi son preso i primi mesi, perché la gente senza sapere i motivi è subito a dire: «Eh, il cantante se ne è andato per fare successo da solo». Poi quando sono usciti i miei pezzi han capito che quei pezzi non ti fanno diventare famoso e ho ripreso fortunatamente credibilità in questo senso [ride, ndr].
Tu non vuoi diventare famoso?
Io voglio diventare felice. Del “famoso” da bambino non m’interessava, così come non m’interessava quando ho approcciato alla musica e non m’interessa neanche adesso.
Se a Laidlaw non piaceva questa vita e ha cambiato, cos’è, invece, che ha spinto te a voler continuare, anche da solo?
Non puoi sfuggire alla tua natura. Non so come dirti: io scrivo canzoni da quando ho quindici anni, i Canova sono arrivati dopo. Solo che prima scrivevo canzoni, le registravo e mettevo i CD sotto ai banchi delle ragazze a cui le dedicavo, ora li pubblico, e non voglio cambiare approccio, perché è quello che mi fa rimanere fedele a me stesso. E forse adesso che sono da solo, che c’è la mia faccia sul disco, c’è il mio cognome, ho ancora di più la responsabilità, con me stesso, di esser fedele al mio carattere e a quello che voglio fare.
Il disco si apre con “Cantautore”, che è una canzone abbastanza esplicita. Che cos’è, un’auto-accusa, la rivendicazione di un ruolo, uno scusarti?
Un’autocommiserazione [ride, ndr]. Purtroppo, nella vita di oggi, la tecnologia, grazie o per colpa di questi ultimi due anni, è diventata il 100% delle nostre vite: prima le videochiamate erano da sfigati, ora perché vedersi davvero se c’è Zoom? Siamo molto abituati a far vedere le cose belle e basta, l’influencer fa vedere quanto è bella la sua vita. Io fortunatamente faccio il cantante e faccio una vita in cui scrivo canzoni per la maggior parte del mio tempo. Quando facevo l’università ero felicissimo quando finiva il periodo degli esami (che io non davo) pensando: «Sono libero!». Studiavo beni culturali, una triennale che ho tirato per nove anni, al nono anno fortunatamente è uscito il primo disco dei Canova [ride, ndr]. Mi ricordo della felicità da: «Domani mi sveglio e penso solo alle canzoni». Ora ho la fortuna di dire: «Ah, che bello, domani mi sveglio e posso pensare solo alla musica». Però tutto ciò porta a tanta miseria umana; nel pezzo mi sveglio con una ventenne che non so nemmeno come si chiami o quanti anni abbia e da fuori sembra una figata, invece voglio dire che sono uno sfigato, in maniera anche autoironica. Poi nella seconda strofa ci sono io che passeggio nel parco vicino casa, cosa che faccio davvero. La vita di un cantautore è anche molto noiosa e ricca di solitudine.
A proposito di solitudine, mi sembra che sia uno dei temi che attraversa il disco, con tanti aspetti diversi, ma non c’è quella disperazione che spesso si può affiancare alla solitudine. Che tipo di solitudine racconti?
Vivo da solo, quindi è una scelta. Ho il lusso del silenzio, che è una cosa preziosa, per me. Potrei stare intere giornate da solo, senza parlare, magari cantando o suonando qualcosa. Questo aspetto mi piace molto e come dici tu è un tema ricorrente nel disco perché fa parte della mia vita. Non sempre è una cosa positiva: tornare a casa ogni sera dopo una giornata in studio, dopo un po’, può diventare deprimente. Sono molto fiero della solitudine, perché penso non si possa stare bene con qualcun altro se non si sta bene da soli. So di gente che se rimane da sola per più di venti minuti urla, perché poi arrivano i pensieri e non sa cosa fare. Io invece ho un mondo e anche se passo tantissimo tempo da solo non mi sembra mai abbastanza, tra libri da finire, dischi da ascoltare, guardare il muro [ride, ndr]. La vedo come una cosa positiva e negativa insieme.
Negli ultimi tempi siamo stati un po’ costretti alla solitudine e a lungo andare ne può conseguire questa sorta di alienazione. Non hai paura di rimanere troppo solo?
Leggevo un articolo di non so chi, quindi non citerò nessuno, in cui si diceva che avere tempo libero dieci anni fa era un figata, ora invece vogliamo tutti vite pienissime, piene di feste e aperitivi. Per me tempo libero e solitudine sono un lusso, io la vivo così. Mi chiedi se la troppa solitudine uccide? Ma no, se è una scelta no. Non mi vedo in una casa con altre dieci persone, ma neanche a passare tutta la vita da solo. Sono uno che crede nelle cose vere: credo nel grande amore come credo nelle grandi amicizie e nei grandi sentimenti; non mi accontento e penso che così facendo si riesca, prima o poi, a trovare la persona giusta. Sono un ottimista che spera e pensa sia meglio rimanere da solo, piuttosto che accompagnare il tempo.
A proposito di solitudine e di trovare le persone giuste, nel disco ti accompagnano Gazzelle e Brunori Sas. C’è la tendenza a fare delle “gueststarrate” un po’ forzate, invece mi sembra che questi due cantautori, pur essendo molto diversi, abbiano molto in comune con te. Di che tipo è il vostro rapporto e come pensi possiate arricchirvi a vicenda?
Come dici tu, anche io penso che troppe volte queste collaborazioni non siano proprio naturalissime. Io sono felice di aver portato a termine le mie collaborazioni, perché sono di vita, non solo discografiche. Quella con Gazzelle è l’unica canzone scritta da zero con qualcun altro; siamo amici, ci siamo conosciuti con Maciste, abbiamo fatto un tour insieme, ci siamo confidati e ora l’amicizia è anche più forte di qualche anno fa. In uno dei tanti giorni insieme a Milano, ci siamo detti: «Che facciamo?», è nata anche come una scommessa per allontanarci dai nostri mondi. Fare una ballata alla Oasis strappa mutande sarebbe stato un po’ scontato per entrambi, quindi è l’unica canzone che va per fatti suoi, si allontana anche dal suo sound ed è anche l’unica prodotta solo da Filippelli, mentre la produzione del resto del disco l’abbiamo fatta insieme.
Invece con Brunori c’è stato tutt’altro approccio: avevo scritto “Povero cuore” dopo lo scorso Capodanno, ma avevo la sensazione che gli mancasse qualcosa: serviva un intervento esterno. Se avessi scritto io anche la seconda strofa secondo me sarebbe stata un po’ patetica; questo compiangersi in continuazione non mi piace. Visto che si trattava della prima canzone dedicata a me stesso, mi serviva qualcuno che riuscisse a parlare del mio cuore, cosa che io non potevo fare perché io e lui siamo praticamente la stessa cosa. Ho pensato a Brunori perché ho avuto la fortuna di conoscerlo e non sarei andato da nessun altro, se lui mi avesse detto di no. Probabilmente l’avrei buttata, come altri pezzi che lascio a metà e poi cestino. L’ho chiamato e gli ho detto: «Senti, io ho scritto questa canzone, secondo me ha bisogno di te, dimmi quello che pensi, mandami anche a fanculo», e invece dopo una settimana mi ha mandato indietro il mio provino dove aveva registrato la sua voce nel buco di strofa e lì ho detto: «Cazzo, la canzone ora ha senso».
Parlando di cantautori, testi e contenuti: il termine “cantautore” in Italia è molto bastardo e si tende a pensare che sia quasi un’attenzione morbosa alle parole, trascurando le basi musicali. Il tuo disco invece è molto prodotto, co-prodotto mi hai detto, quindi come ti rapporti al pensare a come le canzoni suoneranno? Quanto conta per te questa cosa? Che tipo di lavoro c’è stato?
Guarda, è fondamentale perché io scrivo le canzoni arrangiandole, come facevo coi Canova. Non ho mai portato le canzoni in studio chitarra e voce, anche perché ho iniziato a tredici anni suonando la batteria e ho un approccio da “visione di insieme”. Qui ho fatto lo stesso perché per me l’arrangiamento è la canzone, infatti a Maciste si arrabbiano sempre perché vogliono sentire le canzoni nella loro fase embrionale e io invece dico sempre che devono aspettare. Magari una canzone chitarra e voce fa schifo; arrangiata fa meno schifo. Poi ci sono dei brani, come “Un bacio”, che è rimasta volutamente come l’avevo scritta e proposta e non aveva bisogno di altro. Sono molto attento alla musica, per assurdo “Cantautore”, che apre il disco ed il primo brano di un solista che arriva da una band, strizza l’occhio agli Oasis, ed è una cosa voluta, anche se per assurdo quella canzone suona “da band”, contrariamente a quello che dice il testo. Mi è piaciuto questo binomio. Poi la parola “cantautore” non è una medaglia, perché nel nostro paese c’è sempre questa tendenza a paragonare il cantautore a un poeta, come se fosse un punto d’arrivo.
E “artista”?
“Artista” già è diverso, perché te lo devono dire gli altri. Però se scrivi poesie va bene, a prescindere che siano belle o brutte, sei comunque un poeta, l’artista semplicemente scrive e canta le cose che fa, ma non bisogna avere paura di questa parola, secondo me. Che sia bello o no lo decide il pubblico.
Hai un suono molto riconoscibile, benché non si tratti di un disco dei Canova – e si sente: si sente che è tuo, c’è un’ammissione di personalità. Ti mancherà un po’ andare sul palco e non averli dietro?
Eh, quello probabilmente sarà la cosa che mi mancherà di più, ma non tanto per il concerto in sé, quanto per tutto quello che c’è intorno, il cazzeggio… Eravamo amici, non solo colleghi. Mi mancherà anche lo spostarsi di città in città con grande passione. Avrò una band d’ora in poi, ma non ho ancora fatto i casting [ride, ndr]. Si sentirà sicuramente la differenza, ma te lo farò sapere dopo il tour.
Andiamo verso la conclusione. Ti faccio una domanda super retorica, che faccio sempre ed è insopportabile: il tuo è un disco che si pone molte domande. Dove vanno a finire queste domande? Queste risposte le cerchi, aspetti che arrivino da sole o non c’è bisogno che arrivino?
Le risposte in genere me le dà la vita stessa, nel senso che molte volte non capisco il significato di alcuni versi subito, ma trovo il loro significato nei mesi dopo; è una cosa che mi affascina molto. Sono sempre stato molto legato a un certo romanticismo circa il destino, sono uno molto deciso ma che si lascia anche andare nelle decisioni che non riguardano me e neanche te. Quindi la vita è una risposta.
A proposito di destino: la storia è andata com’è andata, la tua storia artistica ha preso una direzione solitaria e la storia dell’indie, dell’itpop, di cui sei stato uno dei grandi esponenti, sembra stia andando verso l’esaurirsi, per motivi anagrafici e forse anche per la pausa di praticamente due anni nella vita di tutti quanti. Secondo te dove si sta andando e tu dove ti poni in questo flusso?
Forse di questo abbiamo già parlato, ma secondo me è stata una scommessa persa. In quegli anni, parliamo del periodo tra il 2015 e il 2018, quei tre o quattro anni, c’era la possibilità di fare le cose in un certo modo, a livello di qualità; invece poi, non so per andare dietro a cosa, alcuni si sono un po’ persi. Io penso di no e credo che questo disco lo dimostri, visto che sono riuscito ad andare in radio con “Povero cuore”, che non ha nessuno dei dogmi del “brano radiofonico”. Secondo me si è persa l’occasione di far capire la differenza fra autori di un certo livello che seguissero un tradizione italiana di cantautori, visto che l’indie si rifaceva a quello. Si è persa questa cosa perché comunque il mercato discografico è riuscito a comprare l’indie – sì, è questo il titolo che sto dando alla nostra intervista.
Ci ho scritto un libro a riguardo. E tu dove stai andando in tutto questo?
Io vado dritto per i cazzi miei e per assurdo l‘esperienza coi Canova ha già risolto il mio sogno quindi non ho la fame che avevo a venti anni di dovercela fare: ce l’ho già fatta con loro ed è stato incredibile riuscire a fare un tour con quattromila persone dopo un disco pubblicato, è stato un sogno, come quelli che leggi nei libri. Adesso vado per la mia strada e sono comunque un signore di trentadue anni. Tante esperienze le ho fatte, seguo me stesso, seguo le canzoni che scrivo e cerco di farlo nel migliore dei modi, riuscendo a portare, spero, ancora un po’ di tradizione della canzone a cui io sono legatissimo. Sono molto più italiano che esterofilo quindi ci tengo molto a portare avanti questo discorso.