– di Martina Rossato –
Facciamo un passo indietro. Siete una commistione di culture pazzesca e create un’atmosfera talmente particolare da essere unica e impossibile da collocare geograficamente. Voi dove vi vedete?
Saeed: Secondo me il luogo a cui apparteniamo è più mentale, metafisico. La musica che facciamo assomiglia a tante cose, ha elementi che vengono da Bristol, da Teheran, da Berlino, dall’America, ma non è collocabile da nessuna parte perché non è nata in un contesto fisico. Siamo abbastanza isolati, in quel senso. BowLand è nato e cresciuto in uno spazio non fisico, non ha nessuna posizione geografica.
E invece dove vi vedete nel panorama musicale?
Pejman: Il nostro problema principale è questo: in Italia questo tipo di musica quasi non esiste. Nel mercato italiano ci sono tanti artisti stranieri molto fighi, ma non diventano mai conosciuti, rimangono sempre molto underground. Per questo abbiamo molti problemi dal punto di vista discografico, è molto difficile che qualcuno voglia investire in un progetto del genere. Stiamo cercando di far sentire la nostra musica all’estero, ad esempio in Inghilterra, dove ci sono artisti simili a noi, che sono anche conosciuti. Però credo che anche in Italia stia pian piano cambiando il suono e il gusto degli ascoltatori.
Però è molto bello che facciate musica così particolare.
Saeed: In un certo senso sì, ma no. Siccome cantiamo in inglese, per il mercato italiano è un doppio problema: a livello di sound e a livello linguistico. I discografici non riescono a capire come progettare un percorso per una realtà come la nostra. Lo vedono come un rischio perché non ci sono casi simili a noi che sono diventati famosi.
E come è stata l’esperienza a X Factor?
Pejman: X Factor ci ha aiutati tantissimo a far conoscere il nostro progetto alla gente, e se abbiamo una fanbase forte è grazie a quello. Poi è diventato difficile continuare per quella strada per i motivi che dicevamo poco fa.
Saeed: E anche per colpa del lockdown.
Pejman: Comunque è stata un’esperienza del tutto positiva.
Saeed: Abbiamo imparato tanto e conosciuto tante persone che nel tempo sono state molto utili come collaboratori nel mondo della musica. Con alcuni di loro lavoriamo ancora.
E da un punto di vista umano come è andata?
Lei Low: Eravamo come una famiglia, abbiamo trovato davvero molti amici. Vivevamo tutti insieme in un posto isolato e senza telefono. È stata un’esperienza bella, ma anche difficile. È stressante, non dormi mai e sei sempre stanco.
Pejman: Ci sono sempre tante attività da fare, dalla mattina a mezzanotte.
Saeed: Non senti nessuno, non parli con gli amici e con la famiglia. Questo vuol dire che non riesci mai staccare. Complessivamente tutto molto positivo, anche nello staff sono uno più carino dell’altro, ma è tutta la macchina dello spettacolo e della tv che è un po’ crudele.
Come è stato tornare sul palco dopo il periodo di lockdown e restrizioni?
Pejman: È una bellissima sensazione.
Lei Low: Anche se al primo concerto post-Covid la gente era seduta con le mascherine.
Saeed: E nonostante questo, è stata un’esplosione di energia e di gioia. All’inizio dell’estate, quando abbiamo fatto qualche concerto, è stata una rinascita. Tutti e tra abbiamo detto la stessa cosa: che ci eravamo dimenticati dell’esistenza di quello spazio emotivo enorme che sta attorno ai concerti.
I concerti e gli spettacoli di danza che abbiamo fatto con una compagnia di Torino sono stati una ricarica di energia sostanziale. Ci siamo resi conto che la mancanza dei concerti ci aveva sfiniti.
Pejman: Ora stiamo lavorando su un disco, che finiremo il prossimo anno, per il momento ci godiamo i concerti in programma a dicembre.