– di Martina Zaralli –
Gli amici di sempre, la voglia di parlare alle nuove generazioni, gli anni passati coi Modena City Ramblers. Dal 29 ottobre scorso, “Canzoni dalla soffitta”, l’ultimo capitolo in ordine di arrivo nella discografia da solista di Stefano Cisco Bellotti, ci porta dentro il suo personale rifugio in cui scrive, suona e compone. Un album che ne contiene anche un secondo, intitolato “Live dalla soffitta”, per ripercorrere così con brani editi e inediti un periodo di isolamento e incontri, raccogliendo storie e suoni di una vita in musica. Anticipato da “Riportando tutto a casa”, definito dallo stesso Cisco come il “brano più nostalgico che abbia mai scritto”, “Canzoni dalla soffitta” è un diario di viaggio tra i ricordi collezionati in trent’anni di carriera musicale, un disco intimo che nasce in un luogo particolare e in momento particolare, quello del primo lockdown, in cui la rilettura del proprio passato è stata la via di fuga dalla solitudine delle giornate. Lo abbiamo raggiunto al telefono, ecco cosa ci ha raccontato.
Partiamo dall’inizio. Qual è la storia di “Canzoni dalla soffitta”?
Il disco nasce durante il primo lockdown, come conseguenza dalla necessità – e dell’obbligo – di rimanere chiusi in casa. Sono abituato a sfogarmi sul palco facendo concerti: dovendo trovare un’alternativa, ho iniziato a scrivere, a buttare giù idee per un nuovo album e nel giro di un anno ho collezionato molto materiale. E poi, dalla soffitta, sempre durante la pandemia, ogni giorno facevo dei collegamenti social per suonare una canzone live, un appuntamento che è diventato col tempo un’abitudine molto apprezzata dalle persone che mi seguivano e che mi chiedevano di raccoglierle in un album. Per questo motivo ho inserito anche dodici pezzi live, tra canzoni con i Modena City Ramblers, canzoni della mia carriera solista e cover.
Il disco ci proietta infatti in un luogo magico, la soffitta. Uno spazio relativamente piccolo, nel quale però è possibile spostarsi nel tempo: nel passato tra i ricordi e l’eredità emotiva della famiglia, ma anche nel futuro con le canzoni che sono state ispirate proprio dal vivere la soffitta…
Sì. La soffitta è un luogo dove poter ritrovare vecchi ricordi. Così è stato anche per me, circondato da vecchi affetti che mi porto dietro dopo trent’anni di carriera musicale. “Canzoni dalla soffitta” è un disco che se da una parte parla un po’ dell’ultimo anno e mezzo, vissuto distanziati gli uni dagli altri, dall’altra parla di tutto ciò che nasce proprio dalla soffitta: un luogo in cui mi sono rinchiuso, in cui mi sono rifugiato, circondandomi di libri, strumenti e dischi, in cui è sorta l’esigenza di voler ricordare con le canzoni alcune storie. Tipo “Per sempre giovani”, sul dramma dei ragazzi dell’Istituto Salvemini di Casalecchio di Reno, oppure “Nel mio posto“, in cui racconto di Carpi, anche se poi ognuno può vederci la propria terra e la propria storia. E infine, cercando nei vecchi ricordi, è nata l’idea di tradurre in italiano canzoni non mie: “Fiori Morti (Dead Flowers)“ dei Rolling Stones e il “Fantasma di Tom Joad (The Ghost of Tom Joad)“ di Bruce Springsteen.
Rimanendo sul tema ampio dei ricordi: dal suo punto di vista, stiamo perdendo l’abitudine alla memoria?
Secondo me sì. Una persona più brava di me, diceva che la memoria è come un muscolo, va esercitato, allenato, va rinvigorito ogni giorno, perché se poi perdiamo la memoria di quello che siamo, rischiamo di ricommettere errori molto gravi. Sarebbe davvero imperdonabile. Anche per questo la soffitta viene in soccorso nel recupero della memoria. È successo anche quando ho voluto scrivere “Riportando tutto a casa”, la canzone per i miei trent’anni di carriera: per farla ho spulciato dentro la soffitta e sono saltate fuori cose meravigliose. Così come per il video che accompagna il brano, abbiamo recuperato immagini bellissime che in parte avevo quasi dimenticato.
“Riportando tutto a casa”: che sensazione ha avuto rivivendo i momenti della sua carriera coi Modena City Ramblers?
Un senso di stupore per l’incredibile quantità di cose fatte dal 1992 al 2005. Quindici anni di una storia incredibile, di un treno che viaggiava a una velocità incredibile, difficile da seguire. La pandemia mi è servita quindi anche per raccogliere la memoria di quegli anni: ho ripensato ai viaggi fatti, come a quello in Sud America o in Africa. Ho ripensato a tutti i volti incontrati. “Riportando tutto a casa” è la storia coi Modena City Ramblers, perché è anche il titolo del nostro primo disco: è stato davvero un viaggio meraviglioso nel passato.
Ascoltando “Canzoni della soffitta” sembra di leggere un diario di viaggio. C’è un posto a cui è più legato?
L’Irlanda. È lì che ho capito cosa potevo diventare, o meglio cosa volevo diventare. Ero un giovane ragazzo di ventidue anni e in Irlanda ho conosciuto un altro modo di vivere, di divertirsi attraverso la musica e la tradizione. Poco dopo, con i Modena City Ramblers abbiamo costruito la nostra Irlanda in Emilia, ed è stato bellissimo. Quello è stato davvero un’esperienza che mi ha aperto la mente. Poi ci sono stati anche altri viaggi: tipo quello che ho fatto in Patagonia, in solitudine, tra il Cile e l’Argentina, nel sud del mondo con in testa tutti i libri di Luis Sepúlveda, di Gabriel García Márquez.
C’è poi anche un importante discorso sotteso alla tematica del viaggio, che è quello del ritorno…
Sì, esatto. Siamo tutti viaggiatori con una calamita che ci riporta sempre alle nostre origini. Il ritorno deve essere letto anche come una ricerca per capire chi siamo e da dove veniamo per poter poi diventare chi vogliamo diventare.
Possiamo quindi dire che non c’è futuro senza radici?
È proprio così. E poi aggiungo che più siamo forti e consapevoli di quello che siamo, più siamo poi anche disponibili, aperti, a conoscere culture diverse e a crescere. Perché la vita serve a crescere, non a rimanere uguali a cinquanta o a ottanta anni come quando ne avevi quindici o trenta.
La musica oggi dovrebbe forse rafforzare, recuperare, l’attenzione verso la tradizione, per interpretare la storia di collettività…
Purtroppo siamo portati oggi a pensare che la musica sia solo divertimento, roba futile da consumo quotidiano. Io sono cresciuto con l’idea che la musica sia fondamentalmente cultura, in grado di far crescere le persone. Quando un Paese ha una tradizione musicale ben salda e quindi ha una cultura della tradizione, che riesce a tramandare di generazione in generazione, vuol dire che ha un futuro roseo. Questo futuro roseo io non l’ho conosciuto. Abbiamo passato gli ultimi venti anni a cancellare quello che era l’impegno in musica: penso che dovremmo recuperare la tradizione musicale, l’impegno della canzone, il cantautorato, il voler raccontare storie attraverso la musica. Le canzoni incuriosiscono e tramite le canzoni puoi conoscere fatti veri. Prendiamo “Per sempre giovani”, chi ascolta può chiedersi: “Di cosa sta parlando Cisco? Chi sono questi ragazzi? Cosa è successo?”. Si innescano cioè dei meccanismi dove l’ascoltare anche casuale impara a conoscere il passato che fa parte di una comunità.
Dopo trent’anni della musica, cosa direbbe a chi si sta avvicinando adesso alla scrittura delle canzoni?
Abbiamo bisogno di musica che faccia riflettere. Siate voi stessi e abbiate cose da dire, raccontate le cose in cui credete e non quello che il mercato vi chiede di raccontare.
In “Canzoni dalla soffitta”, troviamo anche i brani “Lucho” e “Manifesto”, che sono i suoi omaggi rispettivamente a Luis Sepúvelda e a Enrico “Erriquez” Greppi. Che ricordo ha di loro?
Stiamo parlando di due grandi amici e di due grandi dolori. Sepúlveda è stato un maestro, che ci ha insegnato a guardare il mondo con altri occhi, facendoci crescere come persone prima che come artisti. Erriquez era un fratello, uno dei pochi che rispettava al cento per cento quello che scrivevamo, quello che facevamo. Rimangono per entrambi le loro opere e non è roba da poco. Rimane la loro scrittura, i libri da una parte, le canzoni dall’altra, ma sentirò la loro mancanza per molto tempo. Mi sembrava doveroso omaggiarli: con “Lucho”, scrivendo un brano per Luis Sepúlveda e con “Manifesto” per Erriquez rifacendo una sua canzone, una delle più belle che ha fatto. Glielo dissi anche di persona quando sentii il disco per la prima volta: “questa è una della canzoni che avrei voluto scrivere io”.