– di Yna
Foto in alto di Marco Previdi –
Quello dei live è uno fra i settori più colpiti dalla pandemia. Ma come funziona nella pratica il live e quali sono state le sue evoluzioni principali nel corso degli ultimi anni? Quali sono le nuove sfide da affrontare da parte di un settore vitale sia per gli artisti che per gli addetti ai lavori? Ho avuto il piacere di confrontarmi su questi temi con Nicola Romani, booking agent di DNA concerti.
Negli ultimi cinque anni il mondo della musica in Italia è cambiato molto. Qual è il ruolo che il booking ha giocato in questo e quali sono stati i principali cambiamenti nel settore?
È un argomento molto vasto. Ci sono varie tendenze che negli ultimi anni sono state decisive per tutto il settore della musica. Una primissima tendenza è la rinnovata attenzione per gli artisti italiani, anche esordienti. Accanto a ciò hanno acquisito popolarità alcune realtà considerate mainstream, come la radio e le televisioni, il punto d’approdo finale forse è stato Sanremo 2020, dove il 60% di nomi in gara erano di estrazione indipendente, non di certo di provenienza classica. Questo sicuramente è stato, per noi che abbiamo da sempre lavorato prevalentemente con quella fetta di mercato, una grande opportunità, ma sicuramente ha rappresentato anche un grosso cambio di paradigma: i concorrenti in gioco sono aumentati notevolmente, e tutti cercano di approfittare del nuovo corso, quindi anche quelle che erano le agenzie di live meno attente al fenomeno “indie” adesso o le hanno già acquisite o cercano costantemente di acquisire fette di un mercato una volta di nicchia ma ormai sdoganato presso il grande pubblico.
Un altro aspetto da sottolineare è il fatto che le etichette discografiche (le indipendenti, ma non solo) non sono solo più “solo” etichette, ma hanno acquisito delle capacità manageriali che le rende delle vere e proprie factory operanti a trecentosessanta gradi, occupandosi quindi di management, edizioni, distribuzione e in alcuni casi anche di booking e merchandising e questo vuol dire che hai delle controparti più forti con cui confrontarti.
L’ultima tendenza da porre in evidenza è che si è molto ridotta l’attenzione verso le proposte internazionali. I club che prima facevano tre-quattro concerti di artisti internazionali al mese, hanno adesso sostituito quel contenuto con artisti italiani. Si è perso secondo me questo interscambio con l’estero che sicuramente era molto proficuo: tante band nascono anche dal vedere altre band suonare in quanto portatrici di nuove tendenze, e se non allarghi il tuo sguardo verso il mondo, ti limiti a guardare il tuo ombelico, rischi di rimanere provinciale, per cui una crescita artistica più interessante e personale diventa difficile.
Come ha affrontato DNA concerti questo 2020?
Noi ci siamo trovati in una situazione abbastanza fortunata, arrivavamo dal 2019 che è stato un anno fondamentale per la nostra agenzia: tour con Cosmo, Calcutta, tour europei, Mahmood… Il 2019 è stato forse l’anno in cui abbiamo realizzato di più, sia con artisti italiani che con artisti internazionali. Il 2020 sarebbe stato l’anno in cui sulla carta avremmo dovuto tirare un po’ il fiato per caricare le energie aziendali, in vista di un 2021 pieno di impegni. Per cui, volendo esagerare, lo stop dato dalla pandemia per noi ha scelto il momento migliore per capitare, in un altro momento sarebbe stato sicuramente più dannoso per la solidità della struttura. Soprattutto nel primo anno, abbiamo assunto una posizione attendista e, come noi, anche tutto il mondo dei concerti, che si è comportato in maniera molto responsabile, fermandosi per primo. Sono molto soddisfatto di come il tutto è stato gestito da parte di tutti gli operatori del settore dello spettacolo dal vivo. Noi, essendo una realtà indipendente, abbiamo cercato di risolvere alcune criticità in una maniera che rispecchiasse la nostra storia: abbiamo deciso di rimborsare i biglietti, abbiamo anche consentito a chi non volesse il rimborso di effettuare con esso una donazione alla protezione civile, per cercare di dare un segnale, ben consapevoli che noi non ci avremmo assolutamente guadagnato. Abbiamo cercato di evitare i posticipi e di trattenere i biglietti in tasca per mesi. Nell’estate 2020 poi siamo riusciti a lavorare con le capienze limitate, seduti, e ci siamo ingegnati per fare delle proposte coerenti al nuovo contesto; abbiamo creduto nella ripartenza e ci crediamo ancora nonostante le grandi difficoltà.
2021: che estate abbiamo attraversato, per i live? Qual è attualmente la situazione della musica dal vivo nel nostro paese?
Ci stiamo scontrando con delle istituzioni che sembrano non conoscere esattamente quale sia la realtà produttiva dei concerti e dello spettacolo dal vivo. È necessario tornare urgentemente a una situazione di normalità (fatte salve le misure di sicurezza per il pubblico) per la ripresa del settore. Disabituare il pubblico alla fruizione dal vivo, significa intraprendere una strada da cui non è scontato riuscire a tornare alla normalità, come è successo ad esempio per il calcio e cinema in TV e streaming. Al momento dello stop il rischio che con la musica succedesse la stessa cosa era altissimo, per cui abbiamo provato a trovare delle soluzioni coerenti con la situazione, anche se il problema di lavorare con quei limiti si sentiva e si continua a sentire: gli spettacoli rischiano di assomigliarsi un po’ tutti, non potendo investire troppo nella costruzione di show personali, alcuni artisti potranno girare e altri artisti no, perché sentire il punk seduto e distanziato può andare bene per una volta, per dieci forse no, e se il pubblico non ti segue più lo perdi, poi perdi anche i professionisti del settore, perdi i musicisti, che andranno a fare altri mestieri, perdi i club e le persone che ci lavorano. Non è una situazione auspicabile per una nazione che dovrebbe puntare tanto sulla cultura. Solo qualche anno fa i nostri parlamentari dicevano: «Con la cultura non si mangia» e ho paura che, purtroppo, nel 2021 il pensiero sia ancora quello. Con la cultura si mangia, ci mangiano tante persone e si creano delle basi su cui si potrà mangiare in futuro. Il grosso della cultura sostenuta dalla nostra classe dirigente è quella “istituzionale”, ultra-finanziata e che, chiaramente, lavora su delle dimensioni economiche talmente grandi e talmente poco sostenibili a livello di mercato che forse per un politico poco attento questo giustifica la conclusione per cui con la cultura non ci si mangia, perché sembra sempre un pozzo senza fondo dove vanno a finire i soldi dei musei, dei teatri, dei cinema… Ma la cultura non è solo quello. La cultura crea ricchezza, crea indotto e crea professionalità e il settore oggi chiede solo che il nostro stato ci permetta di lavorare come lo permette ad altre realtà, non in modo assistenzialista.
Ha parlato dello streaming. Nel 2020 sembrava una cosa fattibile; è stata una parentesi o può essere una risorsa per il futuro?
Penso che lo streaming possa essere una delle tante facce della produzione culturale. DNA concerti ha fatto un’esperienza di streaming abbastanza importante: Andrea Laszlo De Simone con l’Immensità Orchestra, dalla Triennale di Milano. Ciò che abbiamo capito, anche grazie a quella esperienza, è che ci vuole un’idea forte dietro a una proposta di questo tipo, se si vuole raggiungere il pubblico. Non basta riprendere banalmente un concerto. Dal punto di vista organizzativo invece ci sono dei costi che sono molto importanti rispetto alla produzione di un concerto; inoltre lo streaming non fa bene, secondo me, al circuito dei club e dei live, perché esaurisci con la replica quello che avresti fatto con dieci, quindici o venti tappe in giro per l’Italia, e non fa bene ai musicisti per lo stesso motivo, non consente una continuità di lavoro, esaurisce l’impegno artistico in un solo evento non replicabile. Dal punto di vista del pubblico, secondo me, è un mezzo ancora troppo freddo e mediato, per questo i risultati dello streaming non sono stati brillanti. Ricordo il live streaming di Nick Cave a Londra, c’è stato un grossissimo investimento dietro e il risultato era comunque artisticamente rilevante, ma di sicuro l’utile derivante dall’evento sarà stato inferiore rispetto a quello che avrebbero raggiunto con un tour di cento date nei palazzetti di tutto il mondo, ad esempio.
Qual è la linea che seguono gli artisti nei confronti della crisi del reparto concerti?
La situazione è molto variegata. In alcuni casi gli artisti sono andati avanti, altri hanno giocato in difesa. Non c’è un giusto modo di reagire a questa situazione. La maggior parte degli artisti ha preferito aspettare condizioni più favorevoli, non accettando di fatto la situazione delle capienze ridotte e soprattutto la fruizione da seduti, che è un grosso cambiamento, soprattutto per chi la musica la deve fare. Nel 2021 molti hanno cominciato a fare concerti anche con il pubblico seduto e c’è stato comunque un rilancio delle uscite discografiche; anche durante il lockdown, però poi ovviamente è mancata l’esperienza del live. Adesso il disco ha una vita molto più breve, visto che non è supportato dal tour, quindi molti hanno rimandato le uscite. Alcuni hanno scelto di combattere questa situazione come Cosmo, altri semplicemente hanno deciso di rimandare tutto quanto, come ad esempio Tiziano Ferro. Di base molti hanno sofferto questa situazione, molti artisti non hanno potuto girare in quanto il loro valore di mercato avrebbe rischiato di “abbassarsi” in maniera sensibile e questa ovviamente è una scelta che pochi possono permettersi di fare.
Qual è il valore del soldout oggi, visto che rappresenta un po’ il breakeven della produzione live?
È diventata un po’ l’unità di misura di tutte le produzioni, è molto difficile pensare di riuscire a produrre concerti o tour che non si appoggino agli esauriti. La maggior parte della produzioni sono costrette a ragionare sul dovere riempire gli spazi, quindi è fondamentale riuscire a prevedere quali sono le dimensioni di risposta del pubblico, a trovare lo spazio giusto al momento giusto. La corsa al sold out non mi piace, non credo che la musica debba vivere di “tutti esauriti”, i concerti devono poter andare anche male. Purtroppo la concorrenza è sempre più spietata nel nostro settore e questo porta a lavorare con dei margini sempre più bassi. Alcune realtà possono permettersi delle operazioni con grossi margini di perdita, altre purtroppo no, ma il rischio di questo approccio è sopratutto l’appiattimento della proposta culturale, cosa che combattiamo quotidianamente con il nostro lavoro e dimostrando che si può creare ricchezza anche con un approccio diverso.