– di Riccardo De Stefano –
Si potrebbero dire tante cose sui Fast Animals and Slow Kids. La band perugina ha infatti superato la boa temporale dei dieci anni di attività, senza sparire nel mare magnum delle proposte indie degli anni ‘10 e raddrizzando la barra verso una carriera sostenibile e in continua crescita di pubblico.
Il 17 settembre è uscito il loro sesto album, “È già domani”, per Woodworm: un disco che affronta il tema del tempo, dei cambiamenti, della paura e di cosa ci rimane da fare quando tutto sembra crollare.
Ne abbiamo parlato con Aimone Romizi, frontman e autore dei testi, per capire insieme da dove sono partiti e dove andranno da domani.
È stata un’estate interessante, la vostra, avete fatto tante cose in un momento di stasi. C’è stato però un linguaggio diverso, avete convertito i concerti in live show, set acustici. È stato un processo naturale? Come avete affrontato il suonare dal vivo in questo periodo?
I concerti dal vivo di quest’estate sono un po’ il punto di arrivo di un percorso, partito con l’esperimento della graphic novel e continuato con il mini-documentario dove raccontavamo i vari dischi, per cercare in parte di comprenderli noi. Alla fine, abbiamo fatto un tour dove ripercorrevamo tutto quanto, dal vivo, con delle persone davanti. Questa è stata l’unica vera costante della nostra vita, il suonare di fronte a qualcuno. Ci siamo trovati bene, è stata una cosa diversa, che senza i casini di questo periodo non avremmo mai fatto. Ci ha permesso di raccontarci in un modo più intimo, perché c’era tempo per parlare, per riarrangiare i pezzi e far sentire anche la voce che normalmente in un concerto dei FASK è più sotto perché è tutto più rock and roll. L’ho trovata fisiologica, lineare, un modo creativo di rispondere a questo periodo un po’ di merda.
A proposito di voce, negli ultimi due dischi hai cambiato molto modo di cantare. Hai una voce più delicata, più dentro e non per forza sopra la canzone. È una cosa spontanea? Come ci sei arrivato?
Mi vergogno di meno, banalmente. Abbiamo iniziato a cantare in inglese, e ci chiamiamo Fast Animals and Slow Kids per questo motivo, perché nessuno capiva quello che dicevamo e quindi in quel modo ci sentivamo più confidenti. A un certo punto volevamo dire qualcosa e abbiamo iniziato a cantare in italiano. Però urlando, perché urlando ci sentivamo un po’ più forti, più “fichi”. È stato un percorso personale per cui ti sentivi un po’ meglio di prima dopo aver fatto quel pezzo o quel concerto. Così, a cascata, è andata avanti. Adesso ci rendiamo conto che non c’è necessariamente bisogno di urlare tutto. Alcune cose sono potenti se le dici con l’intenzione giusta, non c’è un unico modo di dire una cosa. Capita che qualcuno che dica una cosa sottovoce la dica in maniera più forte di qualcuno che te la urla in faccia. L’importante è riuscire a capire che cos’hai da dire: se sai cosa vuoi dire, trovi la forma che te lo fa dire in modo più forte. Mi vergogno di meno di dire delle cose sottovoce, di dire dei pensieri più intimi senza il bisogno di doverli urlare per fare vedere che sono pronto alla sfida col mondo, ma che certe volte lo subisco il mondo.
Sono passati dieci anni dal primo disco “Cavalli”. È cambiato tanto il mondo musicale. Quanto pensate di essere cambiati, anche all’interno di una scena musicale?
Noi siamo dentro la cosa, quindi da dentro è sempre difficile analizzare quello che sta succedendo. Magari uno sguardo più esterno sarebbe più a fuoco del nostro. A noi sembra di star facendo la stessa cosa da sempre. Facciamo una sintesi tra quattro teste, un processo complesso e ardito, e una volta che troviamo una sintesi che convince tutti facciamo uscire quel pezzo, quel disco. Certo, c’è una coscienza e un’esperienza maggiore, sappiamo cosa succede quando si mette piede sul palco, come scegliere e arrivare a un suono preciso. Prima era più difficile raggiungerlo, perché non conoscevamo tecnicamente le strumentazioni, le cose che avevamo davanti. Questo non incide sul come fai le cose. Su “Hybris” dicevamo: «Uniti e forti per noi stessi» e lo slancio è lo stesso da lì. Noi dobbiamo essere coerenti con noi stessi, per quello che facciamo in musica e per come lo facciamo, con una coscienza maggiore di cosa significare fare musica.
Quando uscirono “Hybris” e “Alaska” si sentiva molto l’influenza dei Titus Andronicus. Che cosa è cambiato negli ascolti? Che cosa vi ha influenzati per “È già domani”?
Per “È già domani” c’è tanta altra roba. Lì non solo ci facevamo influenzare, ma quasi si ascoltava in maniera impulsiva una sola cosa. Adesso apprezziamo sempre più musica e sempre più varia. Ognuno di noi porta dentro un disco ogni tanto che fa ascoltare agli altri, piano piano, e alla fine ascoltiamo musica che non avremmo mai ascoltato. Questo disco ha dentro un sacco di referenze, è molto più ampio rispetto ai precedenti, che avevano quelle due o tre reference molto chiare. In “È già domani” puoi trovare di tutto: c’è “In vendita” con un riff al basso alla New Order con Peter Hook. Poi abbiamo influenze Tame Impala, quindi roba contemporanea, sul finale di “Rave” c’è questo basso ovattato, dal mood più psichedelico. Ci sono gli assoli di sassofono alla Bruce Springsteen o alla Sam Fender in “Fratello mio”. Sentiamo una serie di reference che si perdono in un disco molto variopinto e ci piace così. Riusciamo a trovare del bello in tanta roba che ascoltiamo. Questa è una cosa che diceva mio padre: «Arriverà un momento in cui ti piacerà tanta musica. Molta più di quella che adesso ti faccio ascoltare e mi dici che ti fa cagare». E avevo paura di ‘sta cosa, ma mi sa che aveva ragione.
Forse è una conseguenza dell’invecchiare, se non del diventare più maturi. “È già domani” come album riprende un po’ quei concetti già affrontati nella vostra discografia, ma mi sembra meno disperato del passato. Penso a “Fratello mio”, dove dici: «Ho già visto quanto è buio il mare, che se ci cadi non ti puoi salvare». Quasi il fratello maggiore de “Il mare davanti”.
Assolutamente sì. La reference è proprio quella. Sono contento, perché sei l’unico che l’ha beccata. Mi riferisco quel mare lì, a quel mare che vivevo là. Si riconnettono le cose. È la nostra vita e noi la nostra vita ce l’abbiamo piuttosto chiara.
Adesso mi sembra ci sia un po’ di distacco rispetto a quel malessere. Anche questo è dovuto al fatto che ci siamo tuffati in quel mare e ne siamo riemersi?
Non so se siamo riemersi. In generale, ci siamo tuffati così a lungo che a un certo punto, il mare è uno dei tanti elementi nei quali sguazziamo. Ci si abitua a tutto: all’incertezza, al dolore, ci si abitua alla felicità se va molto bene nella vita. C’è il dolore, c’è il male, c’è l’amore, c’è la felicità. C’è tutto, ma mentre in alcuni momenti della vita le scopri come nuove sensazioni, adesso le conosci. Di fronte a questo ti poni in maniera differente, molto più cosciente. Sai come comportarti. Sai cosa funziona rispetto a quello che sta accadendo per te stesso. Di fronte al “mare davanti” sai come comportarti, dovresti riuscire a perderti meno e a gestire meglio la mareggiata.
Un altro parallelo che ho trovato rispetto ad “Alaska” è fra “Odio suonare” e “Stupida canzone”. In “Odio suonare” avevi quasi il timore che qualcuno credesse alle tue parole, mentre “Stupida canzone” rivendica l’importanza e la forza che ha una “Stupida canzone”. Come ti trovi adesso? Che peso hanno queste “stupide canzoni” per te, personalmente?
Una cosa non annulla l’altra. Hai sempre paura che la gente creda alle tue parole, perché hai paura di essere fallace – e probabilmente lo sei. Non è sempre detto che quello che stai dicendo corrisponda al giusto, anzi. A volte ti rendi conto che vengono presi per buoni dei pensieri che comportano un errore finale e ti senti responsabile. Quel senso di responsabilità continuo ad averlo, mi sono reso conto che la mia musica non è qualcosa che ho solo io, dentro la mia cameretta, ma è qualcosa che ha, per qualcuno, un significato di vita. Tante persone si sono innamorate, coi FASK, coi testi che per me significavano il massimo del male e magari per loro il massimo dell’amore. La musica plasma le nostre vite e modifica alcune relazioni. Dall’altra parte, si sottende un altro concetto: il fatto che la musica non è mai stupida. Può essere stupida per qualcuno, non è detto che lo sia per qualcun altro. Nulla è stupido se gli dai un significato. Vorrei non sbagliare e non far sbagliare le persone che ci ascoltano, dando dei messaggi stupidi. Al tempo stesso mi rendo conto che anche un messaggio stupido può avere una sua potenza.