– di Giacomo Daneluzzo –
Bolognese, classe 1997, Bobby Wanna è un giovane e promettente artista, che – con vari nomi – da ormai diversi anni calca il panorama rap e hip hop indipendente. Ha fondato un suo marchio di streetwear chiamato Voodoo Brand e in collaborazione del suo fidato produttore Dario Pruneddu ha pubblicato per Polydor e Trident Music i primi due singoli di una nuova fase del suo progetto, intitolati rispettivamente “Tosse Tosse Tosse” e “Giuda”, il più recente. Bobby è un ragazzo molto sveglio, solare e alla mano. Parlandoci si nota subito la sua enorme passione e la sua ammirevole dedizione in tutto ciò che fa, tanto nella sua musica quanto nell’ambito dello streetwear.
Per approfondire il suo percorso artistico tra rap e vestiario gli ho fatto qualche domanda.
Ciao Bobby! La prima domanda che vorrei farti è inerente ai tuoi pseudonimi: hai cambiato nome più volte, prima di arrivare all’attuale Bobby Wanna; come mai? Si tratta di una ricerca della tua identità artistica o di qualcos’altro?
Ciao! È anche così, ma più che la ricerca di un’identità ognuno di questi nomi ha segnato un periodo di transizione, anche e soprattutto dal punto di vista sonoro. Sono un perenne insicuro. I miei amici mi chiamavano Bobby, era il mio soprannome; alla fine mi piaceva più di quelli che avevo adottato, così l’ho tenuto. Lo sento mio e mi piace.
E con questo nome sei partito con il tuo progetto più grosso a livello discografico: Trident Music e Polydor, con cui hai pubblicato “Tosse Tosse Tosse” e “Giuda”.
Sì. Il progetto Bobby Wanna è partito all’inizio della pandemia. Ho fatto uscire tre pezzi con un’altra etichetta e poi mi è arrivata la proposta di Trident. Io e il mio produttore abbiamo iniziato già due anni fa a fare una marea di pezzi insieme e i primi due usciti, che sono parte di un progetto più esteso, sono questi due. Sta iniziando ora tutto il parto di questi brani.
A livello di produzione e testi è cambiato qualcosa rispetto alla fase precedente?
Sicuramente sì! Il mio progetto è cambiato moltissimo, soprattutto da quando ho iniziato a lavorare con Dario Pruneddu, il mio produttore, che viene da ascolti diversi dai miei, più vicini al mondo del punk e dell’elettronica, nonostante sia anche un grande appassionato di hip hop. Gli piacciono un sacco artisti come Arctic Monkeys, The Strokes e Bloc Party, questo tipo di cose. Quando vado a lavorare a Milano con Dario sono ospite da lui, perché abbiamo un bellissimo rapporto di amicizia, e ascoltiamo un sacco di musica insieme, oltre a lavorare. Mi ha fatto ascoltare tutte queste cose io ho volato, ci sono andato sotto male: l’ultimo disco degli Strokes è quello che ho ascoltato di più su Spotify. Questi ascolti mi hanno influenzato.
A livello di testi sentivo di essere molto “enigmatico”; lavorando tanto in studio ho cercato di chiarificare un po’ la mia scrittura, di renderla più semplice evitando la banalità. Un’altra cosa che ho iniziato a fare è il cosiddetto mumble, cioè improvvisare delle melodie al microfono, mangiandosi le parole, per poi man mano costruire il testo, cosa che mi ha aiutato molto a livello metrico. Prima non lo facevo, forse anche perché usavo sonorità più vicine all’hip hop della vecchia scuola. Mi è sempre piaciuto il boom bap.
Tu invece da che ascolti arrivi?
Il mio primo approccio alla musica, quando ero veramente piccolo, è stato con il rock e l’hard rock, che ascoltava mio padre, ma ero molto piccolo e lo ascoltavo passivamente. Mia madre ha sempre ascoltato Vasco Rossi, Lucio Dalla – che peraltro è una componente fondamentale della formazione di tutti i bolognesi – e Fiorella Mannoia, un sacco di cantautorato. Il mio primo approccio serio alla musica, però, l’ho avuto col rap e in generale con tutto il mondo dell’hip hop, anche fuori dalla musica. Sono molto appassionato di graffiti, da spettatore – faccio qualche scritta, ma non l’ho mai presa così seriamente come alcuni miei amici. Ho sempre bazzicato i contesti delle jam e delle piazze, con una commistione tale di bombolettismo e freestyle che mi sono appassionato a entrambe. Dai quattordici ai diciotto anni ascoltavo solo rap e un po’ di techno. La mia matrice, la mia musica ancestrale, è quella, soprattuto il rap degli anni ’90, anche se io sono del ’97.
A proposito della collaborazione con Dario, com’è nata?
Dario lavorava con degli artisti del Collettivo HNCF e quando io stavo cercando qualcuno con lui lavorare mi è stato presentato da amici. Quando ci siamo visti la prima volta abbiamo fatto una traccia. In seguito è nata una grande amicizia: ora facciamo i concerti insieme in cui suona il basso mentre io canto. È il mio socio, il mio partner in crime. Una figata!
Mi sembra che in quest’ultima fase del tuo percorso rispetto a prima ci sia più un racconto della tua vita, sia in modo leggero, come in “Tosse Tosse Tosse”, che più intimo e riflessivo, come in “Giuda”. È così?
Assolutamente sì. Entrambi i pezzi, sia “Tosse Tosse Tosse” che “Giuda” sono tra i più recenti che ho fatto, su una ventina di pezzi che costituiscono il progetto a cui stiamo lavorando. “Tosse Tosse Tosse” è nata durante la pandemia. Avevo queste rime già scritte – cosa rara, perché io scrivo sempre in studio a Milano, praticamente mai in altri momenti – che erano le prime quattro del pezzo. M’immaginavo il party pre-pandemia, in cui vai in macchina a casa di qualcuno, fai schifo, becchi una tipa che ti piace, lei non ti caga e poi, alla, fine torni a casa. “Giuda” invece è nato sempre durante la pandemia ma in un momento in cui avevo bisogno di parlare di esperienze personali, di quello che rappresenta il tradimento, non nel breve termine ma in generale.
Quindi “Giuda” è un brano autobiografico? Il personaggio di Giuda è legato ai Vangeli, per te, o è puramente un simbolo del tradimento?
Giuda è il traditore per antonomasia e il testo è autobiografico. In tutti i miei testi parlo di me o di quello che ho attorno, in qualche modo; ma “Giuda” è un pezzo davvero molto personale, nato in un momento in cui volevo proprio parlare di me. A proposito dell’uso della figura di Giuda posso dire che mi piace molto l’aspetto iconografico, per così dire, nella musica. Per esempio Ketama126, quando dice: «Un angelo caduto dal cielo» crea un’immagine potentissima, decadentista, che rispecchia molto il lifestyle di molti ragazzi di oggi. Io ci vedo molto maledettismo, nella mia generazione; è molto presente, forse per la questione del periodo storico in cui siamo cresciuti noi: siamo a cavallo della generazione pre-Instagram, con il racconto mitico degli anni ‘80 e ’90, però con una chiave già 2.0. Siamo una generazione un po’ sfigata, ma anche fortunata, per tanti versi.
Il maledettismo di cui parli secondo me è molto presente anche nella produzione musicale sia italiana che internazionale.
Hai detto bene. Anche le super-hit pop americane e inglesi oggi hanno un tono nostalgico e malinconico, molto diverso dal suono plasticoso che c’era fino al 2010-2011. Adesso la nostra generazione è sui vent’anni: siamo figli di un periodo che è stato veramente una merda. In Italia quando andavamo a scuola c’erano le varie riforme Gelmini eccetera e, più in grande, un susseguirsi di crisi politiche. Poi c’è stato il periodo di tanti amici che iniziano a scoprire la droga ed è devastante. Forse è una cosa mia, ma nella roba che ascolto io ci sento moltissimo tutto questo, anche all’estero. Pensa a Billie Eilish: si vede che è una ragazza che ha avuto dei cazzi, non è un’artista pop che parla di stronzate, ma affronta tematiche pese relative alla post-adolescenza che sono molto segnanti.
Ho letto che hai creato Voodoo Brand, un tuo marchio di streetwear. Parlami di questa tua passione: com’è nata l’idea di fare un tuo brand e com’è proseguita?
Grande, grazie di avermelo chiesto. È stato un percorso lungo. Ho iniziato cinque anni fa a fare delle magliette in serigrafia. Avevo un altro brand con altri ragazzi, ma non è andata. A un certo punto ho detto: «Mi faccio il merchandising dei pezzi in chiave indipendente, mi faccio le mie grafiche, i miei artwork, i miei design». Poi ho visto che prendeva piede, tante persone a Bologna mettevano queste cose, così ho pensato di chiamarlo Voodoo Brand (invece che “Bobby Wanna Merchandising”), perché il concetto del voodoo mi affascina molto. Mi sono riunito con mio fratello gemello, che è stato al mio fianco tutta la vita, letteralmente ma anche perché è appassionato di musica, conosce anche lui il mondo dei graffiti e dello streetwear… E così abbiamo iniziato insieme e ora sta prendendo piede, per quanto naturalmente sempre in un bacino ridotto. Ci stiamo divertendo un botto. L’idea alla base dello streetwear è avere un’ottica genuina del fare queste cose.
Hai detto che il concetto del voodoo ti affascina: ti va di approfondire?
In realtà il voodoo è una roba abbastanza pesa, anzi, direi che lo è moltissimo. Le sue radici sono africane e si ricollega a una mia vecchia traccia, in cui paragonavo il modo in cui una ragazza mi “teneva lì” al voodoo. È un concetto affascinante: potrei essere la marionetta di qualcuno, come in quel momento una tipa, ma anche della creatività, della passione, di qualche svarione per qualcosa.
A livello grafico mi piace molto l’estetica punk, lo streetwear vicino al mondo dello skateboard o a quello del metal. Un brand di questo tipo che mi piace molto è Doomsday Society, il brand di Salmo. Il grafico è FR3NK, che è anche un bravissimo illustratore. Il loro vestiario per me è pazzesco, folle. «Doomsday» vuol dire «giorno del giudizio», è un concetto molto oscuro e molto punk. E poi il mio idolo assoluto, per qualsiasi cosa, è Kanye West, che nel mondo della moda ha il suo brand Yeezy. Personalmente cerco una sorta di connubio tra estetiche particolari come quelle della Yeezy e quelle più punk, di brand come Trash o Vans. Ho preso spunto da questo tipo di brand: ho usato molto, per esempio, l’orsetto, un elemento grafico ricorrente nella discografia di Kanye West – si trova sulle copertine dei suoi primi tre album, The College Dropout, Late Registration e Graduation. Potrei parlarti per ore di Kanye West… “Paranoid” di Kanye West e Mr Hudson, tratto da 808s & Heartbreak, un album super oscuro, è uno dei primi brani che ho sentito in vita mia, su MTV, e di cui sono andato a leggere il testo. Kanye è uno dei più grandi, non solo nell’hip hop, ma nella musica, ha lavorato con tutti, e non solo nella musica. Il mio disco preferito di Kanye, almeno musicalmente, è Yeezus.
Il mondo della moda mi piace un botto. Mi guardo le sfilate, mi piace l’abbigliamento in generale, anche i capi femminili: insomma, ci sto sotto, ma non sono un grande compratore dei grandi marchi, perché dalla vita in su compro solo vestiario “di regaz”, cioè di brand o merchandising indipendenti, perché ci tengo molto a supportare queste realtà. Sarebbe una figata se si facesse di più! Oltre al fatto che questi brand vendono a quaranta euro alcuni capi particolarmente fighi, poi magari l’anno dopo il super brand li rifà identici. Stra peso.
Grazie di tutto, Bobby! È stato veramente un piacere. Buon ascolto di DONDA, allora, e a risentirci! [Quando ho fatto quest’intervista DONDA, l’ultimo album di Kanye West, non era ancora uscito e si pensava che stesse per uscire a mezzanotte, ma la sua uscita è stata poi nuovamente posticipata, ndr]
Grazie mille! Ciao, vecchio, buona serata!