Parlando della tua evoluzione, quando uscì “DIE” ci fu una sorta di spaccatura. Una parte del pubblico, prese “Stormi” come “il pezzo” del disco; io quando ho sentito “Tanca” ho perso la testa. C’era un po’ questa divisione tra chi ti ha forse frainteso, pensandoti in quell’ottica un po’ battistiana di “Stormi”, ma la sperimentazione di “Tanca” mi sembra sia il fil rouge che ti ha portato a “IRA”. Hai “abbandonato” lo stile di “Stormi” apposta?
“Stormi” l’ho già scritta, non vedo perché dovrei riscriverla o scrivere qualcosa di simile per battere chissà quale ferro caldo. Come al suo tempo ho già scritto “Il corpo del reato”. In una delle prime interviste che feci per “DIE” mi chiesero “ma non scriverai più pezzi come Il corpo del reato?”. Adesso mi chiedono “non scriverai più pezzi come Stormi?”. Col prossimo disco mi chiederanno “non scriverai più pezzi come hiver?”. La risposta è no, perché li ho già scritti. In questo momento la mia fantasia mi porta lontano da “Stormi”. “Stormi” in questo momento non è sulla traiettoria del percorso che sto facendo, non la suoniamo dal vivo in questo tour, perché sto guardando da un’altra parte. Poi se è stata fraintesa o interpretata come una vocazione battistiana, posso farci poco. Quando iniziai a scriverla, l’ultima cosa che mi venne in mente fu Battisti in realtà. Quando iniziai a scrivere il pezzo e a stendere l’arrangiamento, il pezzo era molto più lento e slabbrato, a me faceva pensare ai Flaming Lips, ai Grandaddy. Poi nel momento in cui canti quella melodia e la canti in quel registro, ti riporta in mente Battisti. Io non faccio parte di quella scena di musicisti che provano a condensare Battisti in due minuti e mezzo di orecchiabilità. So scrivere pezzi come “Stormi”, so scrivere pezzi come “Il corpo del reato”, so scrivere pezzi come “Novembre”, so scrivere pezzi come “hajar”. Queste cose le ho fatte e le so fare, ma sto cercando qualcosa e in questo momento mi interessa quello.
La ricerca linguistica mi sembra una tua costante. Già “DIE” era un album con una lingua che ho definito “da labirintite”, con questi termini che ritornano quasi omofoni. La lingua di “IRA” è protesa a una sorta di portmanteau linguistico. È forse anche questo un modo per “sfuggire dai vincoli” geografici: se la comprensibilità del testo viene meno, si può anche uscire fuori dalla tradizione del bel canto, della canzone?
Sì, sono convinto che nel momento in cui in una qualsiasi opera ci sia una evidente sottrazione di immediata leggibilità, questa cosa crea dei vuoti che generano degli spazi di lettura ulteriore. In qualsiasi testo scritto, filmico o pittorico, il senso sia definito non da ciò che viene detto ma da ciò che viene taciuto. Secondo me “IRA”, e mi pare che sia così anche per chi lo ha ascoltato, è un disco carico di significati. Questi significati non sono necessariamente “storielle”, ma sono anche solo suggestioni e sono determinati da questa sottrazione di leggibilità immediata. Anche il concetto dell’immediatezza non è un concetto artistico, è un concetto economico, non ha nulla a che fare con la produzione dell’opera, ma ha a che fare con la vendibilità dell’opera. Anche su questo dobbiamo iniziare a fare una netta distinzione.
Mi sembra che oggi la forma canzone abbia poco da dire. Dall’epoca d’oro degli anni Sessanta ad oggi, come forma canzone è stato detto tanto. Forse siamo più nell’era dei producer che degli autori. Quanto è importante per te la ricerca del suono? Viene prima il suono dello scrivere la canzone? Per “IRA” è stato così?
La ricerca del suono è fondamentale. Un musicista che non fa ricerca sul suono è come un regista che lavora a un film senza avere un’idea della fotografia che vuole. Non è possibile. I cineasti molto spesso curavano tutto, giravano, seguivano la fotografia e montavano. Il suono è fondamentale, perché determina un’estetica e una stratificazione di senso. È fondamentale per quanto mi riguarda. Io lavoro costantemente sul suono, anche nelle pause tra un disco e l’altro, tra una canzone e l’altra, tra un tour e l’altro. Ci lavoro costantemente ascoltando musica, discutendo con amici fonici, imparando delle cose, capendo come alcune cose sono state fatte. Probabilmente è un’epoca di producer. Molto spesso i producer si limitano a replicare dei canovacci, e questo è evidente. Basta avere un udito un attimo allenato per rendersene conto. Questa cosa funziona in un mercato chiuso e piccolo; ovviamente ci sono delle eccezioni, delle cose molto belle che si sentono, ma sicuramente c’è una grande uniformità di suono. Io vengo dall’elettronica, quindi per me la distinzione tra musicista e producer o produttore è strumentale, non la vedo neanche. Spesso scrivo coi campionatori o a partire dai beat, quindi per me lavorare sul suono significa già scrivere.
Mi piacerebbe riprendere il discorso del regista. Mi sembra che “DIE” fosse come un quadro, appeso al muro e musicato. “IRA” mi sembra molto più fluido, come se sprofondasse dentro una visione, come se traducessi questa “visione”. Che aspetto visivo emerge secondo te ascoltando, suonando e scrivendo “IRA”?
Intanto ti dico che la lettura che dai è molto vicina a quella che do io. Se “DIE” fosse un film sarebbe un’inquadratura fissa e immobile, un rallenty estremo di una scena che dura pochissimo, una manciata di secondi. “IRA” invece un colossal, non intendo un film di costume, ma un’opera molto molto lunga in cui si susseguono paesaggi, flashback, in cui si passa da rive appena raggiunte a periferie urbane lontane e indefinite. Quello che avevo in mente scrivendo “IRA” era quasi sempre un paesaggio notturno e freddo, non vuol dire necessariamente nord Europa o Copenaghen, così come “DIE” non vuol dire necessariamente Sardegna. Non ho mai detto che “DIE” era ambientato in Sardegna, è stata una conclusione inevitabile ma assolutamente arbitraria. Per me “IRA” è un disco umido, freddo, notturno, con tanto ferro e tanta ruggine dentro.
Sei in tour per festival, e prossimamente al Siren. Cambia per te l’esperienza della musica dal vivo in un contesto diverso? “IRA” ha un pubblico diverso da quello che potrebbe avere in un live club o in un teatro?
Sì, è molto diverso. Lo era già prima del Covid. C’è una grande differenza tra suonare d’estate all’aperto e suonare in autunno, il mio amatissimo autunno, nei club. Proprio ti dà una sensazione diversa, il musicista si porta sul palco anche la giornata che ha avuto. Per dirti, abbiamo suonato all’Ypsigrock e per arrivarci abbiamo fatto due ore e mezzo di macchina, quattro ore in coda, una giornata piuttosto pesante, soprattutto per un quarantenne [ride, ndr]. Probabilmente a vent’anni senti meno i contraccolpi. Questo tour lo stiamo affrontando tutti con un enorme senso di responsabilità nei confronti del pubblico. Non diamo per scontato che le persone spendano 25 o 30 euro per venirci a sentire. Poi con la capienza ridotta il costo dei biglietti è aumentato, per fare un concerto ci sono delle spese di base che sono notevoli. La vedo così: si tratta di dover fare il meglio possibile. È una realtà che mi piace, ormai ho fatto tre dischi. Quello che mi interessa è fare dischi, fare concerti, registrare e lavorare tanto alle cose sulle quali mi interessa lavorare. Poca baldoria e molti suoni!