– di Naomi Roccamo –
Credo ormai sia una legge non scritta che ogni concerto a cui decido di partecipare coincida con una partita dell’Italia agli Europei.
Ecco, martedì 6 luglio si trattava della semifinale Italia – Spagna, gentilmente proiettata a Villa Ada pre concerto per accontentare chi, incredibilmente, è interessato sia al calcio che a Vasco Brondi. Esistono ed è giusto così.
Gli organizzatori (che poi sono D’Ada Srl in collaborazione con Arci Roma) ci avevano rassicurato: alle 22 e 45 si stacca tutto, a prescindere dal risultato.
Nonostante le premesse sempre dolcissime e rispettose, lanciate sul suo profilo Facebook il giorno prima (“Infine la cosa più temuta da ogni band italiana si è avverata: avere un concerto in contemporanea a una semifinale dell’Italia. Succede a ogni band almeno una volta nella vita e seguono leggende mitiche e aneddoti fantozziani… questa volta è toccato a noi. Praticamente una calamità naturale!) , nonostante la consapevolezza del fatto che “abbiamo preso tutti un altro fuso orario” e uno scetticismo verso il mondo calcistico che chi lo segue da tanto prima conosce, alle 22 e 52 sale sul palco, con il suo solito outfit che non pretende niente.
“Che bello essere qui nello stesso posto, allo stesso momento, senza essere divisi da uno schermo”
Così ha inizio il “Paesaggio dopo la battaglia”, introdotto dai “26000 giorni”, dalle “Ragazze” che stanno sempre bene” , “Mezza nuda”, e “Mistica”, seguita sul finale da Bukowski che ci ricorda:
Forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre.
Stai in guardia.
Gli dei ti offriranno delle occasioni.
Riconoscile, afferrale.
Non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta.
Poi si ferma un attimo per riprendere quel discorso sulle battaglie che popolano questo disco da mesi ormai, sul rivelarsi e sull’esporsi che, come per magia, non ci rende solo vulnerabili e fragili, ma prima di tutto e soprattutto coraggiosi.
Ci racconta di quello che succede in certi monasteri in Tibet, dove quando vuoi parlare suoni la campana e dici a voce alta solo ciò che è in grado di farti tremare la voce mentre lo dici. Così è con la scrittura. Deve valerne la pena. Nel dubbio bisogna dire la verità, qualsiasi cosa succeda.
Arriva “Città aperta”, e quando rivela di aver pensato di fare qualcosa di controproducente durante questo tour qualcuno grida: “nudooo” e lui sorride. Certo sarebbe una bella mossa di marketing durante una semifinale europea, dice, però quello che aveva in mente è secondo lui un po’ meno glamour.
Allora inizia a leggerci delle poesie, di quelle che, quando le ricevi, pensi a dei doni immeritati, che poi è un po’ quello che ho provato io ascoltando per la prima volta le parole di Mariangela Gualtieri alla fine della canzone.
Volevo tutte le sbandate
essere viva fino allo scortico
essere tavolo pietra bestiale essere
bucare la vita coi morsi
infilare le mani in suo pulsare
di vita scavare la vita scrostarla
sfondarla spericolarla battermi con lei fino
ai suoi sigilli.
Per amore – per amore – tutto per amore
Le “Cattive stelle” se le porta appresso da un po’; rileggendo proprio quel pomeriggio il suo libro, “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”, avevo riscontrato che qualche concetto stava già lì, anni e anni prima e sorrido se penso che alla fine è riuscito a trascinarselo fin qui.
Quando “Qui” parte lui balla, leggerissimo e goffo, sempre più simile a quel Battiato che tanto ha amato.
Stasera vuole avvicinarcisi sempre più e mentre ci canta “Bandiera Bianca”, con un tempismo stravolgente e il patriottismo che esplode, l’Italia entra in finale.
“Oggi mi sono bevuto un caffè e io ne bevo circa due all’anno, potrei smandibolare. Abbiamo vinto? Ah bene, bene.”
Assolutamente scoraggiate dai posti vicini al palco tutti occupati io e le mie amiche decidiamo di lanciarci anarchicamente sotto al palco e cantare per terra, faccia a faccia. Qualcuno aveva anche desistito, arrendendosi alla partita e lasciando effettivamente dei posti a sedere vuoti.
Lui pacato riprende. C’è spazio sempre per la sua Emilia, a cui dedica un trittico sentimentale (“La gigantesca scritta Coop”, “La terra, l’Emilia, la Luna”, l’ultima arrivata “Adriatico”). C’è spazio per tutti quelli che come lui hanno saputo raccontare questa terra, in un omaggio infinito e per sempre grato, per la normalità resa straordinaria da Ghirri, per Tondelli, che se ci pensa ha comunque vissuto un anno in meno di lui e quasi si sente in colpa per questo.
Poi si arriva verso la fine, dopo aver percorso “Il sentiero degli dei”, il “Chakra”, noi “Ci abbracciamo”. Ed esplodiamo. Amate e fate quello che volete, il santino del merchandising sarà sempre pronto a divulgare questa massima e noi a rispettarla in pieno.
Con “Chitarra nera” arriva il momento delle presentazioni. Sempre bello conoscere i nomi di chi ha contribuito a creare la magia della serata che hai appena vissuto, ma significa anche che la festa sta per finire.
E invece tutto diventa rosa, perché inizia “ La Stagione Dell’Amore”, saltando, battendo le mani, sul palco irrequieti, sotto al palco irrequieti. E in quel momento sento che tutto è irrimediabilmente condiviso, imprescindibilmente spezzato in due, fra me e gli altri.
Vedo che negli occhi si porta via l’energia sopra alle nostre teste, un attimo prima di sparire.
Guardo chi è intorno a me, chi è diventato adulto, chi ha condiviso giornate e periodi e date e annate con lui. I coetanei di esperienze. Penso che sì, mi sarebbe piaciuto essere al posto loro.
Ma le esperienze, come le parole, a volte si riciclano, si rendono eterne e generose per far in modo che arrivino il più lontano possibile, proprio come Vasco continua a fare con tutti noi.