– di Assunta Urbano –
«In quaranta sul divano. Cosa direbbe Freud di noi?»
Cosa direbbe Freud non so, ma dopo l’ultimo anno che abbiamo passato sappiamo tutti benissimo quale sarebbe il pensiero comune a riguardo.
Pochi sono stati gli artisti che hanno pubblicato dei dischi nel 2020 e ancora meno quelli che hanno trattato nei loro testi il senso di claustrofobia vissuto, da cui non siamo ancora davvero usciti. Una band l’ha fatto; per questo e altri motivi oggi ne stiamo parlando.
I Post Nebbia nascono dalla mente di Carlo Corbellini, padovano classe ’99. I loro suoni fondono la scena psichedelica internazionale con quella elettronica e sfociano nel mainstream senza perdere la loro originalità. Dopo l’esordio discografico di Prima Stagione del maggio 2018, arriva il 23 ottobre 2020, per La Tempesta Dischi e Dischi Sotterranei, il turno di Canale Paesaggi. Album che permette al gruppo di conquistare maggiori fette di pubblico.
Con le riaperture e la parziale ripresa degli eventi dal vivo, vedremo i Post Nebbia in giro per la Penisola quest’estate. E tra le canzoni in scaletta ci sarà anche la new entry “Veneto d’estate”, in collaborazione con Nico LaOnda (che ho intervistato un po’ di tempo fa in occasione dell’uscita del suo album Tutto Bene). Di questo pezzo, del Veneto e della sua generazione abbiamo parlato con Carlo Corbellini, voce e anima del progetto.
Come si sta a Padova d’estate?
Male. Non c’è vento ed è pieno di zanzare.
Il 28 maggio avete preannunciato l’arrivo della stagione estiva e questo stesso scenario con il singolo “Veneto d’estate”. Come nasce il brano?
Un anno fa abbiamo iniziato a mandarci del materiale io e Nicola [Nico LaOnda, ndr], ma tra vari impegni la cosa si è prolungata per entrambi. In primavera abbiamo deciso di prendere una delle cose su cui stavamo lavorando e di portarla a termine. Ho aggiunto un ritornello al beat funky, lui ha avuto l’idea della citazione a Max Gazzè e Niccolò Fabi e poi abbiamo scritto il resto insieme. Il pezzo parla di oscurità da lockdown, del calore estivo del Veneto, tra umidità, zanzare e bar. È la nostra vita, soprattutto la mia. Un ritratto della quotidianità.
La ripresa del ritornello di “Vento d’estate” dei due musicisti romani è insolita, dato che il vostro universo musicale è ben distante dal cantautorato classico.
È vero, né noi né Nico siamo particolarmente vicini a quel mondo.
La parola “vento” diventa in questo caso “Veneto”. Siamo davanti ad una “hit” estiva, che non ha nulla di tormentone, e in cui c’è una visione amara ed ironica della regione per eccellenza di spritz e bestemmie. Che rapporto hai con la tua terra?
Esatto, è una sorta di manifesto estivo della regione italiana forse meno romanticizzata, togliendo le città di Venezia e Verona. Crea un’antitesi: è un pezzo estivo, con quel tipo di andazzo, ma parla di un posto freddo nell’immaginario comune. Trovo sia peculiare. Parla di una nostra esperienza di vita, di ritrovarsi al bar quando non c’è letteralmente nulla da fare a lasciarsi sciogliere dall’umidità e dal caldo.
In Veneto ci vivo e ci ho sempre vissuto. Ci sono legato. Il caso di Nico LaOnda è abbastanza strano: lui è di San Donà di Piave [nella città metropolitana di Venezia, ndr] e lì ne vede davvero tantissime. Trovandosi sotto il delta del Po, è una specie di palude. Però, vive a New York da un po’ di anni. Credo ci sia anche una reazione nostalgica, che da parte mia non c’è, perché ovviamente sono ancora in mezzo alle zanzare! [ride, ndr]
Neppure New York ti fa liberare da questo immaginario. Invece, quando si sviluppa l’unione tra la band e Nico LaOnda?
Mi ha scritto lui su Instagram, perché conosce Jesse The Faccio, artista lo-fi di Padova. Il mio manager è il suo chitarrista e, quindi, c’era già un giro di amicizie, ci conoscevamo senza esserci mai visti. Anzi, con Nico abbiamo iniziato a lavorare e ancora oggi non ci siamo mai incontrati di persona.
A proposito di collaborazioni, dopo Nico LaOnda, Dutch Nazari e Golden Years, qualche giorno fa su Instagram sono apparse delle stories con te e Bartolini [leggi qui la mia intervista, ndr] in studio insieme. Ci anticipi qualcosa?
Stiamo lavorando, senza particolare fretta e con molta libertà. Per ora ti posso dire che vedremo cosa ne verrà fuori!
I Post Nebbia sono stati spesso accostati allo scenario psych internazionale e non a quello italiano, attivissimo e in costante crescita. Con questa wave che si diffonde sempre di più, pensi che possiate essere capostipiti di una nuova era musicale?
Questa è dura! Allora, sicuramente siamo all’interno di un filone e ci sta andando abbastanza bene. C’è chi ci vede tra i capi di un nuovo modo di fare, di pensare, altre scelte artistiche, estetiche e di produzione musicale. Credo che questa ribalta dello psych ci sia da tanto tempo. Ha fatto fatica e gradualmente ha trovato la sua voce nel pop. Però, non penso di poter prendere il merito di essere uno dei primi che ha portato questa cosa nel mainstream. Ad esempio, c’è stato anche Giorgio Poi. A livello locale, noi veniamo fuori da una scena che è quella di Dischi Sotterranei, che già nel 2013 aveva un sacco di gruppi psych, shoegaze, stoner. Ci hanno dato una mano, anche se noi strizzavamo l’occhio ad un mercato a cui loro prima non guardavano. Quindi, magari “capostipiti” no, ma forse siamo arrivati in un momento in cui i pianeti si sono un po’ allineati. Si sta mettendo d’accordo la parte più radicale, pura, per far uscire il potenziale ad un livello di pubblico ampio. Siamo nella congiunzione astrale giusta.
Visto l’anno passato è interessante che il “momento giusto” sia arrivato ora. Tra l’altro, il 28 ottobre del 2020, nello stesso periodo in cui cominciavamo a conoscere il coprifuoco, è uscito Canale Paesaggi, il vostro secondo disco. Cosa si prova a pubblicare un’opera senza poterla portare in giro?
Quando esce un tuo album, sei curioso di vedere una reazione, un riscontro, delle persone sotto ad un palco. Hai voglia di suonarlo e a noi è mancato. Allo stesso tempo, quella era la nostra prima uscita seria. Non ho un metro di paragone per dirti cosa significa portare in tour un lavoro. Per una serie di motivi, in realtà, anche su quello c’è stata una congiunzione astrale. È un progetto claustrofobico. Si canta di reclusione, di stare chiusi davanti ad uno schermo, tutto il mondo si è trovato in quella situazione ed è stato giusto ascoltarlo in casa. Il clima è stato paradossalmente giusto.
Ripensando al percorso dei Post Nebbia: Prima Stagione entra nella TV, mentre Canale Paesaggi ne ammette la dipendenza e tenta di spegnerla. Passiamo ormai più della metà della giornata davanti ad uno schermo e riflettendo su questa condizione che riguarda soprattutto i più giovani: vi sentite parte di questa società e della vostra generazione?
Sicuramente sì. La nostra anima di Post Nebbia si vede nella capacità di variare e questo aspetto è figlio del tempo in cui viviamo. Le scelte sia strumentali che testuali dipendono dal mondo contemporaneo, anche se ci sono suoni che rimandano ad altre epoche. Viviamo in una realtà in cui tutte le informazioni sono reperibili e non abbiamo la percezione della distanza a livello culturale tra ciò che ascoltiamo. Ad esempio, posso passare da un gruppo rap anni Novanta fino ai Beatles e le due cose potrebbero sembrarmi non così tanto separate. Secondo me, il disagio narrato nel disco è comune alle persone della nostra età e a noi nati sotto l’influenza della tecnologia. I Post Nebbia dipendono dal presente.
Se tu potessi trasportare i Post Nebbia in un’altra epoca, lo faresti oppure preferiresti restare qui?
È una domanda difficile, in realtà, perché ci sono tante epoche che mi piacciono tantissimo. Ho un mio modo di intendere le cose. Il mio sguardo è legato alla prospettiva che ci offre l’avere internet. Forse, i Post Nebbia li terrei qui, più per un senso di sicurezza che per una scelta artistica. Oggi è molto più semplice fare musica rispetto al passato. Sì, l’atmosfera è meno frizzante, ci sono meno cose da scoprire, ma i mezzi a disposizione sono invidiabili. Adesso, vediamo cosa ne sarà di noi. Poi, magari, tra un anno ti dirò se ho cambiato idea.