– di Riccardo De Stefano
Foto di Andrea Mete –
Arrivato al terzo disco, Gazzelle è ormai al di là delle mode passeggere. È qui per raccontare il proprio mondo a una generazione che lo sta eleggendo cantautore di riferimento. OK, uscito il 12 febbraio, ha raggiunto la vetta delle classifiche e subìto le difficoltà dell’Italia in zona rossa, sospeso a metà tra il paradiso e l’inferno e con OK come unica risposta possibile.
Abbiamo parlato con Gazzelle di cosa significhi fare musica in questo momento, e di come possiamo reagire al presente proprio grazie alla musica.
OK è uscito, esiste e oggi devo per forza chiederti: com’è stato lavorare a un album nell’epoca del Covid-19 e del lockdown?
È stato diverso. Più che altro ora è diverso. Ora che è uscito mi accorgo di quanto sia diverso tutto il post-uscita. È un po’… triste. Però mentre lo facevo, in realtà, avevo grande entusiasmo. Anche perché ho iniziato a registrarlo proprio a metà maggio 2020, quindi appena ci hanno “liberato” dalla prima quarantena. C’era grossa voglia, grosso entusiasmo, grossa energia. E c’era anche speranza che la cosa fosse finita lì. Però è un disco sicuramente condizionato da quello che è successo in quei tre mesi di lockdown che in qualche modo mi hanno plasmato, anche se non so neanche ancora bene come… OK è anche un disco dove si può avvertire questo tipo di disagio e un’urgenza di scrivere e di dire quello che dovevo dire, sviscerando dei malumori profondi, interni.
Avete subito ritardi e ripensamenti per la pubblicazione?
Abbiamo pensato tanto a quando farlo uscire, se farlo uscire o meno. Inizialmente doveva uscire a gennaio, poi abbiamo posticipato a febbraio. Ho deciso che la musica non si deve fermare, in qualche modo spero che fare uscire questo disco sia stato anche un gesto simbolico, in un momento discografico dove non si possono promuovere appieno i dischi e soprattutto non si possono fare concerti. Però credo che la musica debba uscire ugualmente, perché le persone hanno bisogno di vedere che noi artisti in primis non abbiamo assolutamente intenzione di smettere, di scordarci come si fa questo mestiere. Sono sicuro di aver fatto bene a far uscire questo disco.
I dischi poi a un certo punto devono vivere di vita propria, no?
Una volta scritto ho la necessità di farlo uscire proprio per un fatto umano, perché sennò invecchiano quei pensieri che ho messo in musica. Sono un po’ amareggiato, adesso, dal fatto che non ho potuto fare grandi cose, non ho potuto festeggiare l’uscita. Avrei voluto magari fare una festa con gli amici, o anche solo gli instore e poi arrivare a fare il tour in maniera serena. Invece non è così.
Questo momento, tanto nella scrittura quanto all’uscita del disco, ti ha fatto pensare al tuo lavoro come artista, anche al modo in cui ti relazioni con il pubblico?
Sto cercando di adattarmi a questa pausa forzata. Cioè, è una cosa strana interrompere un ritmo che va avanti da quattro anni. Passare da andare sempre a cento all’ora a ritrovarmi fermo: certo che incide sulla gestione della comunicazione, dei social o di quello che ho e voglio dire alle persone. È un periodo di disorientamento. Anche a un livello umano, non sto in gran forma. È tosta, e l’unica cosa a cui mi aggrappo, è la speranza di poter tornare a fare la musica come Cristo comanda, con le persone. Se continuasse così per troppo credo non so come andrebbe a finire.
Il disco comunque è andato molto bene, sei stato primo nella classifica FIMI, immagino sia un sogno che si realizza. Come hai vissuto la notizia?
Un po’ freddamente. È qualcosa che artisticamente parlando lascia il tempo che trova. È un feedback, l’unico feedback che in questo momento posso ricevere quindi comunque mi fa piacere, però preferivo essere ventesimo in classifica e poi cantare davanti a quindicimila persone e sentire che strillavano le canzoni a memoria, quello é il feedback che inseguo sempre. Sicuramente il fatto di essere primo in classifica è una cosa positiva, una specie di consacrazione però, non era il mio sogno. Il mio sogno fin da bambino è riempire lo stadio, quella è l’emozione vera, la vita. Poi il resto sono i numeri. Certo, oggi sono l’unica cosa che ci rimane, ma non è del tutto sana come cosa. Io cerco solo il rispetto e l’amore dei fan e adesso che non ce li fanno avvicinare… è veramente un dramma, sto anche andando dallo psicologo per cercare di riacchiapparmi. Ho iniziato da poco e sono anche abbastanza scettico, ma è utile per sviscerare quello che senti, magari prima che la situazione diventi critica.
Si dice spesso che i dischi funzionino un po’ come sedute di psicanalisi. Anche per te OK ha avuto questa funzione?
La musica è sempre stata la mia terapia, per questo non ho mai sentito l’esigenza di andare da uno psicologo. E proprio per questo, invece, ne ho sentito l’esigenza adesso. La musica è stata interrotta e evidentemente anche il mio subconscio ha accusato qualcosa. Per me la musica e i concerti sono sempre stati la mia terapia, e i miei fan gli psicologi. Se mi hai tolto i concerti, mi hai tolto tutto.
OK sembra una risposta un po’ a metà, che significa stare né troppo bene né troppo male. È un po’ la tua cifra stilistica, questo sentimento incerto. È il modo in cui leggere questo disco?
È un titolo quasi ironico, perché mi piace sdrammatizzare e lo faccio spesso con i testi delle canzoni e degli album. D’altronde quando il precedente lo chiamai Punk per me era divertente: chiamare così un disco al contrario molto pop, molto classico, molto anni ’70. Sono cose che mi divertono, come chiamare questo disco OK. E poi una persona che ascolta in modo più approfondito si può rendere conto che non è proprio “ok” il messaggio che voglio mandare, è un titolo che ha vari significati, è anche un modo per dire a me stesso che è tutto ok, che sono arrivato a un punto della mia carriera in cui è anche arrivato il momento di gratificarmi, visto che non sono mai contento. Come per dire: “OK, sei arrivato fino a qui ed è già incedibile così”. C’è una presa di coscienza in questo disco, di consapevolezza.
Nel disco sembra esserci un continuo dialogo con un’altra persona, un “tu”, con cui ti confronti e a cui chiedi “Scusa”, anche se “non è colpa mia”. È un disco di break-up songs?
La musica è sempre un dialogo e mai un monologo, sono sempre io che parlo con qualcuno e quel qualcuno a volte sono io. Per me non esiste l’arte solo per se stessi, è sempre rivolta a qualcun altro. Quando scrivo è più un flusso di coscienza, mi aggrappo a quel “tu” per far uscire quelle cose che magari vorrei dire solo a me stesso, o a volte invece a tante persone contemporaneamente. Alla fine io scrivo per lo più canzoni d’amore, e l’amore è in due. Minimo in due!
In tre è una festa! Sicuramente una delle tue cifre distintive è quella della malinconia. La tua malinconia è un derivato della tua esperienza personale o c’è anche un tentativo di riprodurre dei contenuti, delle tue canzoni, di un certo mondo artistico che magari ti ha accompagnato non soltanto nel passato ma anche negli ultimi anni?
Credo sia una questione di indole, di carattere, un’attitudine naturale. Sono una persona sensibile, che accusa le cose, nel profondo e in modo romantico. Credo ci sia più poesia nelle esperienze difficili che in quelle leggere, gioiose. Però è anche una cosa del mio passato, anche gli artisti che ho amato avevano questo slancio, da Kurt Cobain a Vasco Rossi, passando per altri cantautori italiani non ne trovo uno che non sia stato malinconico: Battisti, Lucio Dalla, a suo modo anche Jovanotti è stato malinconico.
Ricollegandoci a quello che è successo nell’ultimo anno sembra che gli ultimi due artisti che possono essere associati all’indie e che hanno avuto un certo peso per le classifiche siate tu e i Pinguini Tattici Nucleari. Pensi che ci sia qualcosa che vi accomuna? E poi, dove sono finiti tutti gli altri? È forse finita un’epoca?
Qualcosa che ci accomuna, non credo. I Pinguini hanno un modo tutto loro di scrivere canzoni, con un approccio molto più di vibrazioni positive. Non credo che gli altri siano spariti, credo siano in pausa, cercando di capire se uscire o meno. Ma non è tanto una questione di Indie, di Pop, di genere, penso semplicemente che ci siano artisti che hanno più probabilità di rimanere, e c’è chi fa una carriera al di là delle classifiche e al di là delle hit. Poi i concerti definiscono le lunghe carriere: si può essere un fenomeno per due anni e poi sparire nel nulla, succede. Però penso che comunque ci sono due, tre, quattro artisti di quest’epoca che rimarranno nella musica per tanto tempo.
Inoltre, non ti sei accontentato di fare itpop – diciamo così – in maniera lineare. Spesso hai usato linguaggi e atmosfere più urban.
Diciamo che con gli anni ho cercato di dimostrare che con il sound e con la musica alla fine faccio un po’ come mi pare, non mi incateno dentro un genere, non mi accontento. Posso fare pezzi come “Belva” che ha un sound quasi trap e pezzi come “Zucchero filato” o “Polynesia”, molto diversi fra loro. Mi piace sperimentare, per quanto possibile, con le sonorità.
In OK c’è un featuring con tha Supreme (“Coltellata”, ndr), esponente di un mondo apparentemente molto diverso dal tuo. Com’è stata la vostra collaborazione? In che modo vi siete interfacciati? Perché poi ognuno porta il proprio mondo all’interno della canzone stessa.
È stata molto naturale. Quando uscirono le sue prime canzoni rimasi molto colpito dal suo estro, si capisce subito che ha talento. Mi hanno colpito le sue melodie, il suo modo di stravolgere la trap, di parlare di cose diverse, di cantare in falsetto, di fare un poʼ come gli pare. Quindi gli ho scritto e gli ho detto che era forte, su Instagram. Mi ha risposto subito e mi ha detto che mi stimava tantissimo, che gli piaceva un sacco la mia roba, cosa che neanche mi aspettavo e che ci ha portato a dire: “Oh, facciamo un pezzo insieme”. Io avevo già in realtà questo brano, di cui avevo solo la prima strofa e il ritornello. A lui è piaciuto e mi ha detto: “Ok, allora ti scrivo la seconda strofa”. È uscita una bella cosa perché non è un feat che cerca la classifica o la radio, fatto per fare numeri, è proprio una canzone secondo me “bella” dove entrambi siamo rimasti noi stessi, senza cercare la hit a tutti i costi, mettendo insieme i nostri due mondi che forse, è vero, sono distanti. Ma gli estremi spesso si toccano e si inseguono: i due generi in cui ci muoviamo stanno segnando una generazione di persone quindi tutto sommato non sono così diversi. Penso che alla fine sia uscita una cosa molto figa, molto naturale e molto credibile.
Ti sei portato da Punk lʼunione tra due mondi, quello un poʼ più “antico”, un poʼ più da classic rock, con questʼanima più recente, un poʼ più urban. Mi sembra che i tempi si siano rallentati, ci siano più ballad rispetto a prima. Anche questo è dovuto al periodo in cui l’hai scritto?
Di solito quando entro in studio mi lascio travolgere dai suoni, dagli input, dalle cose che mi piacciono in quel preciso istante, è completamente imprevedibile come cosa: è difficile che entri in studio con delle idee chiare in fatto di suoni. L’idea era dare spazio alle parole e alla voce, però ho anche sentito l’esigenza di mettere suoni più duri rispetto a “Punk”, che era pieno di violini e pianoforti. OK è più rompente, più fresco. Ho aggiunto più elementi rock che comparivano meno in Punk, mentre se penso a un pezzo come “Destri”, la chitarra elettrica si sente tanto. In altre canzoni di OK sono tornato su quell’elettronica che mi piace un sacco e che ha caratterizzato molto il mio primo disco, Superbattito, con molti synth. Penso a brani come “Belva”, per esempio. Ma ho fatto tanti ascolti: tanta trap, tanto grunge, tanto Lil Peep, che mi hanno ispirato anche sulle melodie. Mentre invece, per quanto riguarda Punk, io entravo in studio e dicevo deciso: “Voglio fare come i Beatles, punto e basta!”. Poi non l’ho fatto perché non era affatto semplice, ma avevo questa idea di dare alle canzoni un sapore eterno. Volevo che queste canzoni potessero essere ascoltate anche vent’anni dopo senza percepire lo stacco temporale. In OK volevo innovarmi, fare qualcosa di diverso, più internazionale, più pop, perché è il genere in cui puoi avere più libertà. È stata una ricerca precisa di ogni suono: quando lavoriamo in studio, non lasciamo niente al caso; anche se lavoriamo veloci, sentiamo un grande feeling. E comunque, alla fine, penso che lo strumento che si sente di più in questo disco sia la chitarra. Rispetto a Punk, in cui invece lo strumento predominante era il pianoforte, qui si avverte molto di più la presenza della chitarra.
Se ci sentivamo un po’ Punk con il disco precedente, come facciamo a sentirci OK, secondo te?
In questo preciso momento storico, ci vogliono molta forza d’animo e volontà. Ma credo che le cose possano solo migliorare, o almeno è quello che spero. Altrimenti sarebbe la fine del mondo (a cui comunque potrebbe essere interessante partecipare). Io ho fatto questo disco soprattutto per me, per sviscerare e tirare fuori le cose che avevo dentro, e alla fine è questo il motivo per cui scrivo le canzoni. Però l’ho fatto anche per mandare un segnale, che la musica non si ferma, perché per quanto questa pandemia possa piegarci, non ci fermerà. Per citare Tha Supreme, “abbiamo sempre vinto su ogni puttanata”.