– di Riccardo De Stefano –
Sanremo è finito, anche quest’anno, anche nonostante i continui ritardi sull’orario.
Doveva essere “il primo evento normale” post lockdown, invece è stato un guazzabuglio di problemi tecnici, pratici, tamponi e battute sul pubblico assente in teatro.
Doveva – inoltre – essere il Sanremo “indie”. Vero, i nomi coinvolti sono stati i più interessanti degli ultimi anni, forse di sempre. Tra grandi autori, come Colapesce e Dimartino in coppia, con “Musica leggerissima”, e novità reali del mercato, come Madame col brano “Voce”, Sanremo sembrava aver fatto inversione di rotta, cercando di parlare al pubblico più giovane piuttosto che a quello abituale del Festival. Insomma, quando è Orietta Berti, con la sua “Quando ti sei innamorato” ad essere fuori luogo sul palco del Festival, qualcosa significherà, no?
Questo è comprensibile: un anno di lockdown, un anno di assenza dai palchi di Italia, rendeva necessario la sopravvivenza del mercato musicale perlomeno in televisione. Le major vivono con le novità, non certo con i vecchi nomi televisivi: come rinunciare a inflazionare il mercato con quelle nuove uscite che necessariamente hanno come unico spazio promozionale quello televisivo?
Diluite le vostre droghe
Questo non sarebbe un male, non di per sé. Il problema arriva quando la dura realtà ti sbatte in faccia quello che sai, ma non riesci ad ammettere a te stesso. Che cioè nessuno degli artisti in gara ha fatto qualcosa al livello del proprio talento. Restando sui nomi “indie” – nel senso, non spariamo addosso a Renga più di quanto Renga abbia fatto da sé – possiamo dire con facilità che praticamente tutti gli artisti hanno portato la versione “comoda” della propria musica.
Adorabili e bellissimi, i Coma_Cose hanno rinunciato alla parte rap e ai giochi di parole in favore di una ballad romantica e innocua. La Rappresentante di Lista porta il brano più bello in assoluto della kermesse, “Amare”, che suona più vicino a un singolo di Elisa che a qualcosa uscito da “Go Go Diva”. Colapesce e Dimartino presentano il brano meno interessante della loro vita, la già citata “Musica leggerissima”, un brano che non vale la metà di uno solo di loro: gradevole, ma più interessato ad andare in radio che a dirci qualcosa.
Potrei andare avanti. Il senso è quello, comunque. Non è stato Sanremo ad andare verso la musica più interessante e rilevante d’Italia, ma questi autori che hanno accettato – sottolineo, giustamente – le condizioni sanremesi. Zero giudizi su questo, lo dicevo all’inizio: Sanremo è una grande vetrina che in un anno orribile come questo significa vita o morte di un progetto artistico, quindi va benissimo così.
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno…
Però. C’è un però. Se mettiamo in ballo il televoto finale, possiamo fare un’analisi molto semplice. Podio: Ermal Meta con “Un milione di cose da dirti”, Francesca Michielin e Fedez con “Chiamami per nome”, Måneskin con “Zitti e buoni”. In altre parole: lo standard sanremese per eccellenza, cioè la norma televisiva; una vincitrice di X Factor e un ex giudice dello stesso (Michielin e Fedez), nonché marito della più importante influencer italiana; ex-concorrenti di X Factor (Måneskin). Quattro rappresentanti della musica-in-televisione dell’Italia attuale, forse i più rilevanti.
Quando cioè viene chiesto al pubblico di scegliere chi preferisce, il pubblico non premia la novità, né tantomeno “la canzone”, ma il personaggio. Premia quello che conosce, che ha già imparato ad amare e ha già digerito. Quello che conosce e ri-conosce. Così, se Chiara Ferragni decide che suo marito deve vincere, la coppia Michielin-Fedez balza dal 17° al 2° posto con la stessa facilità con cui Willie Peyote crolla dal 2° al 6°. Così i Måneskin ribaltano i pronostici e si aggiudicano la vittoria, con conseguente celebrazione del “rock che vince a Sanremo”.
A sparire sono tutti gli altri, con giusto Colapesce e Dimartino a piazzarsi quarti, per fortuna, ma per i motivi detti poco sopra. Sotto questo punto di vista, il “Sanremo indie” è un totale fallimento, che dimostra l’incapacità di un certo ambiente di essere rilevante al di fuori della televisione, e quanto poco realmente interessi al pubblico della musica suonata.
“Zitti e buoni”
Ma va bene così. Vincono i Måneskin e siamo felici che la Ferragni abbia ricevuto un “no” nella sua vita, e che la “canzona” sanremese di Meta non abbia lasciato traccia nell’albo d’oro.
Quello che spaventa è quanto siano cambiate le cose. Se i Måneskin vincono Sanremo con un brano rock – ed è innegabile che lo sia – la considerazione più immediata che si può fare è che il rock sia diventato gradevole e accettabile dal pubblico generalista e nazionalpopolare. Se Achille Lauro passa in due anni dall’essere “il drogato a rischio squalifica” all’ospite fisso con tanto di baci omosessuali sul palco timorato di Dio dell’Ariston, significa che il suo messaggio non è né dirompente, né in opposizione, ma addomesticato dalla televisione.
Questa musica che si presenta con trucchi e musicisti iper-sessualizzati non significa l’apertura della tv verso un mondo nascosto, quanto la standardizzazione di questi messaggi – “inclusivi”, probabilmente, nella testa degli autori – verso il grande pubblico, con la conseguente banalizzazione.
Il rock dei Måneskin, in altre parole, va in televisione e vince perché innocuo. Achille Lauro è ospite fisso perché innocuo.
Dov’è l’alternativa all’alternativa?
In un contesto musicale dove negli ultimi quattordici mesi non c’è stato un singolo, vero, concerto, che ha visto sparire ogni piccola e grande scena musicale, divorata dal lockdown prima ancora che dal coronavirus, viene da domandarci cosa rimanga. Se l’alternativa, quella che vince Sanremo, è il rock televisivo e anestetizzato dei Måneskin, usciti da un talent show e figli della televisione, che cosa rimane?
Se l’unico spazio per lanciare le carriere, ad oggi, è Sanremo, e le uniche possibilità di vittoria sono per gli artisti già conosciuti dal pubblico televisivo, cosa rimane?
Se neanche più il rock è alternativo, ma comodo e facile, dove sta oggi l’alternativa? Quel rock, nato per essere opposto a quello che andava in radio e in televisione, poi digerito da queste, poi scomparso, ora celebrato e transustanziato nel lavoro dei Måneskin, rappresenta il passato, il presente o il futuro della musica?
Che futuro ha la musica, se non c’è più uno spazio dove proporre un’alternativa reale a tutto questo, se gli ascolti si fanno solo tramite Spotify e se Sanremo è La Mecca persino degli artisti di talento dell’indie?
Troppe domande e nessuna risposta, mi spiace. Mi ritiro qui, lasciando questo spettro nero verso il futuro, dove non solo i talent, ma anche Sanremo diventa l’unica possibilità per “emergere”, per “spaccare”, per farcela. Qualcosa nascerà da questa terra desolata, prima o poi, anche perché, se non ce l’auguriamo noi, adesso, rimane poco altro da fare.