– di Assunta Urbano –
Cosa si prova ad essere un “figlio d’arte”? Questa espressione non si collega soltanto al portare lo stesso cognome del padre famoso o avere una madre celebre. Consiste piuttosto nell’intraprendere lo stesso percorso del genitore oppure, in casi ancor più fortunati, di entrambi.
Questa la storia di Angelina Mango, il cui cognome potrebbe già suggerire qualcosa al lettore. La giovanissima cantautrice è nata nel 2001 vicino Maratea, in Basilicata, ed è cresciuta a pane e note, come si può immaginare grazie all’unione di due personaggi che hanno dato tanto al panorama musicale italiano. Lei, Laura Valente, oltre che per la sua carriera da solista, è ricordata anche come voce dei Matia Bazar dal 1990 al 1998. Lui, Giuseppe Mango, più conosciuto semplicemente come Mango, è rimasto impresso nella memoria degli ascoltatori per canzoni tra cui Oro e La rondine.
Da questo connubio, dunque, viene data alla luce la piccola Angelina, che decide di percorrere quella stessa strada, ma con un suo stile personale. Dopo essersi cimentata in alcune cover sui canali social come YouTube, la cantautrice pubblica il 13 novembre del 2020 un disco intimo, personale e sincero. Monolocale, così è intitolato l’album contenente otto brani, è stato realizzato interamente tra le mura casalinghe milanesi della ragazza.
Di quest’esordio, dell’esigenza di emergere ed esprimersi in prima persona abbiamo parlato con Angelina Mango.
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Sei nata con la musica che ti scorre dentro. Ci racconteresti qualche aneddoto del periodo della tua infanzia sul modo in cui ti sei avvicinata personalmente a questo mondo e perché hai deciso di intraprendere questa carriera?
Fin da quando ero piccola, per me è stato molto naturale esprimermi attraverso la musica. Forse perché vedevo farlo dalle persone che mi circondavano oppure perché mi apparteneva a prescindere. In ogni caso, è stato davvero il mio primo modo di esprimermi. Non ho mai “preso la decisione” di fare questo lavoro. Dopo la fine del liceo, come tutti, ho iniziato a pensare al “cosa fare da grande” e quindi poi per me è diventato un impegno più lavorativo rispetto a prima. Però è sempre stata la parte più importante della mia vita. La casa in cui vivevo da piccola, a Lagonegro, in Basilicata, era piena di pianoforti e di tantissimi strumenti musicali. È come far crescere un bambino in mezzo ai pennelli, magari impara a dipingere. Se invece cresce tra i pianoforti, magari impara a suonare. Così è nato il tutto.
Per entrare nel panorama discografico hai conservato il tuo nome anagrafico. Cosa si prova a portare con sé quest’identità, ad essere una “figlia d’arte”? Hai mai vissuto questo aspetto come un peso?
La scelta del nome è stata abbastanza recente. Qualche anno fa, quando ho iniziato a pubblicare le prime cose su YouTube, mi chiamavo Nina, come facevano anche i miei amici. Poi però, scrivendo canzoni e parlando così tanto di me stessa, essendo sincera ed istintiva, ho pensato per coerenza di mantenere il mio nome. Quindi, sono diventata Angelina. Sempre per lo stesso discorso, poi, andando avanti, mi sono resa conto che il mio nome è Angelina Mango, a scuola mi chiamavano così. Non è solo quello che sono io adesso, ma è anche la mia storia. Non punterei l’obiettivo sulle mie origini o sulla mia famiglia, ma neanche lo rinnegherei. Credo che sia la parte che mi ha formato e mi ha dato fortunatamente la possibilità di raggiungere e vivere quest’esperienza.
Il 13 novembre hai pubblicato il tuo album di esordio, intitolato Monolocale. Parlaci di questo luogo e degli otto brani che hanno preso vita al suo interno, sia per la scrittura, testuale e musicale, che per la produzione.
Come hai detto anche tu, questi brani sono nati e sono anche stati finiti proprio in casa. Soltanto i mix sono stati fatti poi da un mio amico che si occupa di produzione e si è offerto di aiutarmi. Però, tutti gli arrangiamenti e la scrittura sono stati fatti nel monolocale in cui vivo, in cui mi sono trovata nel periodo del lockdown in primavera. È stato molto spontaneo fare questo album, non c’è stata una scelta di pezzi, che sono nati proprio uno dopo l’altro. Arrivata alla fine, mi sono resa conto che tutti insieme avevano un senso. Vederli così mi ha fatto innamorare di questo progetto, perché rappresentava questa esigenza di scrivere, a prescindere dal periodo e dalla possibilità che ha un ragazzo della mia età in questo momento di fare musica. Io l’ho fatto perché ne ho sentito la necessità e penso sia quello che devono fare tutti: esprimersi.
Pur essendo un album realizzato nel periodo di reclusione, non ne tratta. È un lavoro che parla di te, una sorta di percorso della tua vita.
È stato sicuramente un momento in cui sono cresciuta. Quando siamo entrati in quarantena, mi ero appena trasferita nel monolocale. Ho maturato un nuovo modo di scrivere, che ho voluto fotografare. Quindi, sì, è stata un’esperienza nuova. Non parla di lockdown, perché è una cosa che hanno vissuto tutti e ognuno a modo suo. Non mi permetterei di parlare di un argomento così grande.
Viene citata più volte Milano, come vediamo in Naviglio Grande e in San Siro. Che legame hai con questa città?
Milano mi ha accolta. L’ha fatto nel momento in cui mi sono trasferita quattro anni fa e mi ha dato l’occasione di scoprire tanto del mondo. Io venivo da un paese molto piccolo e lontano da tutto, che aveva tantissimo pro, ma anche tanti contro. Milano mi ha un po’ compensato quello che mi mancava. Io non smetterò mai di ringraziarla per questo. Inoltre ho trovato delle persone che mi hanno cambiato la vita. In questo disco parlo proprio dell’amore che ho ricevuto dagli altri, dall’esterno e da questa città. Ci tenevo ad omaggiarla, per quanto non sia la mia terra natale.
Ti capisco benissimo. È una condizione condivisibile di tutti noi trasferiti in una realtà più grande dall’esatto opposto.
Sì, ad un certo punto diventano anche più, forse non importanti, perché non è il termine giusto, ma quasi. Diventano una salvezza.
Assolutamente.
Monolocale è un disco molto intimo e al cui interno si percepisce la tua sincerità. C’è una canzone con cui hai un rapporto più speciale rispetto ad altre?
Credo che ora sia passato troppo poco tempo per poter avere delle preferenze. Hanno tutte una loro personalità e sono tutte troppo diverse l’una dall’altro per paragonarle. Ci sono dei pezzi che secondo me saranno sempre attuali. Sono aggrappata a te è una canzone molto intima, fa parte del mio modo di essere. Quindi, andando avanti mi apparterrà sempre. Oppure Muoio per niente che è dedicata alla mia famiglia, è anche quello un brano per me immortale. Queste due sono molto meno il racconto di un momento, sono molto più un racconto di me.
Proprio Muoio per niente è una delle più profonde per quanto riguarda il testo, ma ha la base più elettronica di tutte. Come è nato questo pezzo? Perché hai deciso di unire due aspetti spesso opposti tra loro?
In realtà, non c’è stato un momento in cui ho deciso questo tipo di arrangiamento. Sarò sincera, mi emoziono molto quando sento delle canzoni, delle sonorità di questo tipo. A partire da Cosmo, Aurora, James Blake, che usano delle sonorità che sembrano più fredde, più distaccate, però ti spezzano allo stesso tempo con delle canzoni profondissime. Mi è venuto spontaneo forse per i miei ascolti precedenti agire in questo modo.
C’è qualcuno tra loro con cui vorresti collaborare?
Sicuramente un featuring con James Blake non lo escluderei! [ride, ndr]
Qualche giorno fa su Instagram hai scritto un post riguardo Va tutto bene, il primo singolo estratto, che ti cito: “Quando le cose non vanno me la cavo da Dio, ma quando vanno bene non riesco a non pensare a un possibile crollo improvviso.” In questa sorta di bilico, da cantautrice, quale potrebbe essere un modo per cambiare ciò che non va, ciò che non funziona?
Secondo me, l’unico modo per cambiare quello che non va è pensare a quello che va. Nella vita di tutti ci sono sempre aspetti negativi, notarli è la cosa più facile. L’opposto però è difficile, per me è difficilissimo. Lo dico proprio nella canzone: “quando va tutto bene è un casino”. Non so se a quell’obiettivo si può arrivare, almeno per me, però è una bella sfida.
Che idea hai del futuro, soprattutto del tuo, pensi che “andrà davvero tutto bene”? Come ti vedi ad esempio tra cinque anni?
Tra cinque anni – se “va tutto bene” – mi vedo a vivere di musica, perché secondo me vivere delle proprie passioni è un privilegio. Se un giorno potessi dire davvero che tutta la mia vita va avanti grazie alla musica sarebbe una grandissima soddisfazione. La musica deve essere rispettata. Riuscire a renderle onore con il mio lavoro è l’obiettivo principale.