Si intitola “Quel filo sottile” questo nuovo disco di Daniele Fortunato, insegnante e cantautore, uomo di letteratura e di pensiero, artista di un suono pulito che torna alla semplicità della sua stessa natura. Un ensemble acustico di chitarra, batteria minimale, contrabbasso e qualche fiato a colorare. La sintesi lascia il posto a liriche quotidiane di quell’incastro magnetico che è il risultato di una bellezza senza ridondanze e senza maschere di finzione. “Quel filo sottile” è un disco di canzoni di cantautorato classico, bello e di carattere, pieno di canzoni d’amore, per la vita, per le persone, per le proprie anime affini.
Un jazz, delle spazzole, dei fiati che dialogano e pochissimo altro attorno ad un contrabbasso. Si torna alla sintesi e alle origini per dare verità alle cose secondo te?
Per me non è un ritorno. Sono le sonorità che sento da sempre più autentiche e in sintonia con ciò che scrivo. Il folk, certi colori jazz, i ritmi latini, sanno accompagnare le suggestioni che cerco di esprimere e si intrecciano senza forzature con il mio modo di cantare.
E come la vedi la scena digitale di oggi sempre ampiamente prodotta e altamente scenica di trovate futuristiche?
È qualcosa di distante dal mio vivere e sentire la musica, ma ci sono nell’universo musicale attuale linguaggi forti e significativi. Quello che forse non riuscirò mai ad apprezzare di quest’epoca è l’utilizzo eccessivo dell’autotune e del reggaeton in moltissime produzioni. L’elettronica invece, se utilizzata con gusto e capacità, è un prezioso valore aggiunto negli arrangiamenti di un disco.
E in generale, pensando anche ai nuovi “cantautori” celebrati dai media: secondo te cosa sta diventando la canzone d’autore italiana? E non ho usato le virgolette a caso…
Difficile rispondere a questa domanda senza generalizzare o “tirarsi fuori”. Nel corso degli anni il paradigma del cantautore si è modificato continuamente, passando da atmosfere alternative cupe e melanconiche a riproduzioni revival delle sonorità anni ’80 con uso intensivo di synth e piano elettrico. Trovo entrambe le fasi dei compartimenti stagni che generano continui cloni.
Penso però che non ci si debba troppo soffermare “sull’estetica” della musica che accompagna i cantautori in questi anni, ma scovare, all’interno dei dischi, canzoni che ti emozionino quanto quelle degli artisti importanti del passato.
“La verità” di Brunori per me è una di quelle. Senza definizioni, è una bella canzone.
E poi un concept, elemento che andava di moda negli anni ’70. Perché questa scelta?
Negli anni ’70 il concept album era prevalentemente ad appannaggio delle band progressive rock che attorno a un tema sviluppavano delle composizioni, richiamando l’intenzione della musica operistica. Nel mio caso il concept nasce per l’esigenza di riunire, come capitoli di un libro, canzoni che rappresentano gli stessi protagonisti in momenti diversi della loro vita. Ogni brano contribuisce a dare significato alla narrazione dell’album.
E per finire ti dico che non ho ancora maturato un’opinione circa l’indipendenza dei brani. Devo riascoltare meglio. Secondo te però queste canzoni, isolate, vivono di vita propria?
Per me, ogni brano di questo disco ha la possibilità di toccare esperienze e sensazioni comuni.
Le canzoni, una volta pubblicate, vivono in chi le ascolta.