– di Giacomo Daneluzzo
Ph. Aurora Cesari –
Sono collegato su Zoom da dieci minuti, in netto anticipo, per intervistare Emma Nolde, giovanissima scommessa di Woodworm e Polydor che ha pubblicato da poco il disco d’esordio Toccaterra (che ho recensito qui), quando finalmente, all’ora stabilita, compare la finestra di Emma: vestita di nero, sullo sfondo si notano una chitarra classica, una elettrica e un ukulele, appesi sulla parete sopra un pianoforte a muro. Emma sembra essere una persona espansiva e dopo esserci salutati l’intervista inizia subito.
Ciao Emma! Sono Giacomo, di ExitWell; ho vent’anni ed è la prima volta che intervisto una persona più piccola di me… Hai mai sentito la pressione di essere la più giovane nel tuo lavoro?
Sei del 2000 anche tu? Ma no, che dici? Io sono di dicembre 2000, abbiamo praticamente la stessa età! No, non ho mai sentito la pressione di essere la più piccola, anzi, probabilmente ho sentito meno responsabilità per questo motivo. Mi è sempre piaciuto essere la più piccola e per un po’ sarò ancora in questa fase: ho sempre avuto amici più grandi, ma adesso, da pochissimo, ho la macchina e mi offro sempre di riportare tutti a casa. Mi piace guidare.
Passando all’intervista vera e propria… Secondo me Toccaterra è un titolo particolarmente efficace, comunicativo. Per come l’ho letto è sì un invito alla realtà, a toccare terra, ma è come se fosse sottinteso qualcosa di problematico, in quest’intento; come se il ritorno alla terra, alla concretezza, non fosse così facile. Com’è nato questo titolo?
Prima di essere titolo del disco Toccaterra è stato il titolo del brano omonimo. Il significato del titolo del brano è diverso da quello del disco. Non so come mi sia venuto in mente, è stato molto spontaneo, non ci ho pensato. Nella canzone esorto una persona che in quel momento vedevo come irraggiungibile a tornare vicino a noi umani, sulla terra – sai, quando ti piace tanto una persona e la divinizzi. Riflettendo sul testo, cambiando le carte in tavola, ho iniziato a leggerlo più dal mio punto di vista, come se fossi io a esortare me stessa a mettere i piedi in terra e a rendermi conto di certe cose. Mi piace un sacco, soprattutto il fatto che sia scritto attaccato, che non ci sia spazio tra le due parole. Mi piace perché non lo riconduco a un momento di riflessione, uno di quei momenti in cui cominci a pensare troppo, a fare costruzioni su qualcosa che poi pian piano inizia a cadere. È stata una scelta molto istintiva; lo riconduco a un momento molto spontaneo, per questo sarà così per sempre.
Dunque c’è un’oscillazione tra la terra, l’istintivo, e le costruzioni mentali, la parte più “astratta”. Anche se la direzione è “verso la terra” è chiaro che ci sono entrambe le parti; qual è quindi la dialettica tra concreto e astratto, in questo disco?
Quando ho scritto le canzoni di Toccaterra dal mio punto di vista era tutto molto concreto; solo a posteriori mi sono resa conto che c’era veramente poco di “reale”: direi una proporzione di ottanta a venti per l’astratto. Ciò che sentivo e sento ancora come tangibile è ciò che provavo in quel periodo; quanto poi esistesse tutto ciò che mi sono immaginata si potrebbe dire zero. Riascoltando i brani mi emoziono, ma mi faccio quasi tenerezza. Mi dico: “Ma quanti film ti sei fatta? Un sacco”. È tutto decisamente più astratto che concreto, pur essendoci un’urgenza di tendere al concreto.
Ora che il disco è uscito senti ancora quest’urgenza di toccare terra?
Mi sento più con i piedi per terra, però… Non mi piace la sensazione di “superficie”. OK toccare terra, ma con una tendenza opposta. La superficie mi sa di approssimazione, non voglio la superficialità. Rispetto a quando mi esortavo a farlo ora so che ci sono riuscita e sono felice di aver raggiunto quest’obiettivo, ma una volta raggiunto un obiettivo se ne pongono altri; e la terra forse non è il punto migliore per avere nuovi slanci. Cerco nuovi punti di partenza. Magari una terra-promontorio, per così dire: non mi piace adagiarmi, quindi ho raggiunto la terra sì, ma in punta di piedi.
Anche se sei molto giovane i tuoi testi sembrano scaturire da esperienze di vita molto forti, c’è una buona dose di introspezione. Quanto c’è della tua vita, delle tue esperienze, nelle tue canzoni?
Avevo bisogno di confrontarmi e non riuscivo a farlo, quindi invece di ricevere risposte alle mie domande dagli altri le ho cercate da sola. Ragionando da soli è più difficile arrivare a dei punti fermi, rispetto che con altre persone. Cambiamo idea di continuo e avere una direzione dall’esterno rende tutto più semplice; nessuno mi dava dei confini, dato che non parlavo, quindi me li mettevo io stessa.
Il modo in cui l’hai fatto nelle varie canzoni mi sembra molto sincero, mi sembra che ci sia molto di te, nei brani di Toccaterra.
Invidio molto chi riesce a raccontare qualcosa che non lo riguarda direttamente. Non ho mai sentito l’urgenza di parlare di qualcosa che non mi riguardasse. Penso che a un certo punto della vita, quando riesci a confrontarti e a parlare di più, possa anche scavare a fondo in qualcosa che non ti riguarda. A un certo punto secondo me viene spontaneo guardare da qualche altra parte, piuttosto che sempre dentro di sé. Adesso per me era un’urgenza farlo in questo modo autoreferenziale, mettendomi al centro: avevo bisogno di essere al centro di qualcosa. Scrivere quei brani era la scusa per farli ascoltare a chi volevo, alle persone vicine a me, e innescare dialoghi. Un po’ come quando racconti di te a un amico e fai esempi ricollegati alla tua esperienza per esprimere meglio certi concetti.
Mi hai parlato di una grande urgenza espressiva. Ci sono momenti molto diversi, sia nel disco in generale che anche all’interno della stessa traccia – Sorrisi viola è un esempio lampante: parte con la voce da sola, delicata, per poi tirar fuori un’energia dirompente.
Sì, fa parte del mio modo di scrivere. Penso che derivi dal percorso che faccio per scrivere un brano: io non scrivo mai nei famosi “dieci minuti di invasamento”; o meglio, quei dieci minuti ce li ho, ma scrivo al massimo una strofa. Dilato il procedimento di scrittura in qualche mese – il minimo è un mese. Di conseguenza, anche se il tema è lo stesso, faccio tantissimo labor limae, ascolto tanto le idee che mi vengono e per non annoiarti l’unica cosa che viene da fare è creare parti diverse, un’evoluzione del brano. È un metodo che con me funziona molto. Però mi piacerebbe riuscire anche a scrivere “one song, one mood”, stile James Blake, che parte da un’idea e chiude con quella: trovo che sia un modo di scrivere molto maturo. Io scrivo in un altro modo, ma quel tipo di canzoni mi rilassano, mi fanno stare bene e spero di riuscire a scriverne, in futuro.
Quindi non ti senti nel tuo momento maturo, per quanto riguarda la scrittura?
No, per quanto nell’immaturità ci sono, secondo me, delle cose positive. Se un giorno farò pezzi diversi, per esempio con un unico filo conduttore, invece che con tanti momenti diversi come quelli di adesso, chissà che poi non mi manchi il modo in cui scrivo ora…
Mi è piaciuta questa cosa che hai detto del non volerti annoiare nella scrittura; anche musicalmente Toccaterra è molto originale, c’è molta sperimentazione, tracce musicalmente difficili da definire. Che tipo di ricerca c’è stata, sulla parte musicale?
Ascolto un sacco di roba diversa, come tutti. Ho references molto diverse. Ad esempio ho scritto Berlino nel periodo Mac Miller pesante, mentre Resta era più nel periodo James Bay. C’è molto di Jack Garratt e qualcosa di James Blake, anche se vorrei che ce ne fosse di più. Non sempre quello che ascolti ti rimane attaccato. Poi c’è Niccolò Fabi… Ce ne sarebbero altre, che ascoltavo mentre scrivevo e producevo i brani e prima, ma queste penso che resteranno tra le mie references. Sono poche rispetto a tutto quello che ascolto, ma ci sono cose che magari ti colpiscono un sacco ma non ti appartengono a livello soggettivo; mi faccio già impressionare da tante cose, se tutte restassero impazzirei.
Noto chitarre e ukulele appesi nella stanza in cui sei… In Sorrisi viola a un certo punto dici: “Ho solo queste sei taglienti corde, che odio già da un po’”: emerge un rapporto molto intenso, ma anche ambiguo, con la musica come tecnica, nella sua parte più fisica, lo strumento. Ti va di approfondirlo?
Ho sempre suonato e mi sento più musicista che cantante. Solo ora comincio a fare i conti con l’idea di cantautrice, rispetto a quella di musicista. Io mi sono approcciata alla musica studiando chitarra e armonia, poi ho preso lezioni di canto e lo faccio ancora. La voce è uno strumento particolare, è un muscolo e va tenuto sempre allenato. C’è un equilibrio sottile tra il saper suonare molto bene, essere forti tecnicamente, e l’essere creativi. Purtroppo non sempre chi sa suonare molto bene è creativo e non sempre chi è creativo sa suonare molto bene, anzi, è facile che siano due cose diverse e separate. A un certo punto capisci questa cosa, ti viene detta, e ti viene quasi paura a studiare: hai paura che venga meno la parte creativa. Quando studi ti vengono date delle domande e delle risposte, ma non sempre le domande t’interessano. Per questo io sto facendo il percorso al contrario: se ho bisogno di capire qualcosa, se mi faccio una domanda, faccio riferimento allo studio, ma finché non ne sento il bisogno non studio. Studio la chitarra, lo strumento, ma non voglio farlo troppo. Suonando con musicisti mostruosi ho sentito spesso dire: “Cavoli! Vorrei tornare a quando non avevo così tanti limiti teorici in testa e mi lasciavo più andare!” ed è da questo che deriva questo rapporto di amore e odio che hai notato.
Inizi il tuo percorso nel mondo della discografia in un momento storico particolarissimo per il lavoro dei musicisti, che presenta complicazioni nuove, in particolare per quanto riguarda i live. Come ti ci stai trovando?
Noto un grande rispetto da parte di chi fa i concerti e da parte di chi ci va. Mi è capitato di suonare in contesti in cui la gente ci va per svagarsi: una volta finito il concerto non c’è il momento dell’incontro, della birretta insieme. Ci limitiamo tutti e stiamo alle regole perché tutto possa ripartire, un giorno. In realtà in questa grande sofferenza c’è anche una cosa bellissima, secondo me, ovvero la presa di coscienza di dire: “Stiamo tutti a sedere, distanziati, pur di ascoltare questo concerto”; nel non essere senz’altro una situazione ottimale, è bello vedere questo atteggiamento nelle persone. Al mio livello, quindi con numeri da club, non c’è un gran problema, anzi, risulta più facile fare sold out e la situazione non è così male. Su altri livelli è più complicato, sia ai livelli più alti che, ad esempio, nei bar, in cui tanti ragazzi non possono più suonare. Io sono in un punto a metà, suono nei localini un po’ più interessanti, per così dire, e se non fosse per il fatto che tutti devono restare seduti sarebbe più o meno come prima.