– di Riccardo De Stefano –
A volte è successo, anche di recente, di vedere artisti collaborare insieme solo per attirare l’attenzione e provare a portare qualche spettatore in più ai concerti. Altre volte, più raramente, accade che amici e artisti umanamente e musicalmente vicini si ritrovino, creando qualcosa che è più della somma delle singole parti. Ad esempio il trio Fabi-Gazzè-Silvestri. E così anche il nuovo duo Colapesce e Dimartino. Che stupisce, ma non troppo, alla fine: siciliani e fieri di esserlo, cantautori contemporanei ma uniti dalla passione per i grandi nomi del passato, autori di una canzone d’autore attuale e fresca, capace anche di essere radiofonica. Il loro nuovo album si chiama “I Mortali” (42records/ Sony Music) e attraversa il mondo dell’adolescenza, della Morte, dell’Amore, con la Sicilia presenza costante sullo sfondo. Tra ironico disincanto e riflessione dolce-amara sull’essere qui, presenti, oggi.
Con già una ricca carriera solista alle spalle, come è stato incontrarsi e condividere questo nuovo spazio comune, vista la vostra personalità forte?
(Colapesce e Dimartino parlano insieme)
Colapesce: Questo è già il primo scoglio da superare: chi risponde alle domande! Scherzi a parte, non è stato uno sforzo, anzi, con Antonio lavoriamo insieme come autori da anni, ci conosciamo da più di dieci e c’è una stima artistica. Ci siamo trovati da subito, non c’è stato alcun adattamento. A differenza del nostro lavoro d’autori, scrivere per noi ci ha permesso di forzare l’immaginario linguistico del nostro background.
Dimartino: Ci siamo fidati e affidati l’uno con l’altro, durante la scrittura. Magari arrivavamo a una idea, perché ognuno metteva in campo una propria visione, è stata una co-scrittura fertile, che ci ha arricchito al di là delle canzoni che abbiamo scritto.
Si dice spesso che “less is more”, collaborare significa buttare tanti elementi e poi sceglierli: è stato un lavoro di addizione o sottrazione?
C: Anche se sono stati scritti fiumi di parole sull’argomento non c’è un metodo preciso. A volte addizioni altre sottrazioni. In alcuni parti da pochissimi elementi che bastano al brano, come “Majorana” che è chitarra e voce. Non c’è una sola verità.
D: Non ci siamo posti degli obiettivi prima di scrivere. Abbiamo scritto come ci era naturale.
C: Abbiamo poi circoscritto l’immaginario. Una volta scelto quella sorta di concept e il titolo, abbiamo racchiuso il nostro immaginario, senza forzarlo. L’’abbiamo sottolineato e messo in luce in maniera diversa rispetto i nostri lavori solisti.
L’immaginario è molto forte, molto ricco, tanto musicalmente quanto liricalmente. Si sente il recupero della canzone d’autore, con l’inizio e l’omaggio a Piero Ciampi, più la riflessione de “Il prossimo semestre“: cosa significhi essere cantautori in Italia oggi?
C: “Cantautore” purtroppo o per fortuna a volte si porta un carico “antico”, quasi politicizzato, con una serie di cliché e stilemi. “Il prossimo semestre” voleva mettere alla luce questi cliché, proponendo un nuovo modo di fare cantautorato e renderlo attuale. Mi piace utilizzare la parola songwriter, non per esterofilia ma perché rende più giustizia al lavoro dello scrivere canzoni. Oggi più che in altre epoche: veniamo fuori da un trentennio dove spesso il contenuto è messo in secondo piano, mentre a noi piace recuperare questa funzione della canzone, con la sfida di non renderla pesante. L’involucro de I Mortali è pop e cantabile, ma anche nei momenti più radiofonici, come “Noia mortale”, ci sono frasi come “scopare per nascondere un dolore”, che spezzano quel contesto. L’involucro è il nostro cavallo di Troia per sfondare un immaginario e all’interno lasciare dei contenuti cantautorali.
D: Il cantautore oggi deve raccontare la realtà filtrandola, con un filtro poetico o politico, ma è questo il suo compito. Adesso è difficile perché la gente non è abituata ad approfondire. Se negli anni ‘70 poteva essere capito da un certo pubblico che ascoltava un disco più volte e si affidava di più al cantautore e alle canzoni che scriveva. Adesso c’è più voglia di parole ad effetto, e slogan. Oggi non è facile fare il cantautore, così abbiamo trovato questa terza via con Lorenzo: con un linguaggio molto pop riuscire a dire qualcosa.
Non a caso proprio “Il prossimo semestre” si domanda “dove sono gli ascoltatori di una volta?”. È un riflesso generazionale che questo pop sia sempre più leggero? Sono peggiorati gli ascoltatori o è peggiorata la musica?
C: Né l’uno e né l’altro. Siamo noi stessi gli ascoltatori di una volta. Spesso speculiamo con Antonio: l’ascoltatore medio si ferma ai dischi che ascoltava all’adolescenza, un argomento che abbiamo preso in pieno, visto quanti brani parlano dell’adolescenza, in contrasto col titolo e il suo senso. L’idea è di piacere a un ragazzo del 2000, vogliamo superare questo stallo e linkarci col presente, quello che i cantautori della nostra generazione hanno perso di vista, per rifugiarsi in una comfort zone. Noi volevamo uscirne e raccontare l’attualità, volevamo mettere un punto a questo modo di fare musica, e con “Il prossimo semestre” abbiamo. Gli ascoltatori di una volta sono pigri, a casa, con figli e vanno solo su Netflix. Mi interessa linkarmi con la contemporaneità il più possibile, è più stimolante. Sennò vivi in una bolla di passato, e spesso ci cado anche io, però è giusto abbandonare il vecchio e guardare sempre al futuro anche se più disastroso e doloroso. Non è però un disco pessimista: mi piace leggere la realtà. Mi piace essere collegato con quello che succede sempre intorno a me, quelli che vivono nel ricordo sono da Museo e i Musei decretano la morte della realtà.
D: Anche io sono un ascoltatore di una volta. Cerco sempre di superarmi, ma alla fine vado a finire negli stessi ascolti, mi commuovono gli stessi dischi. Mi domando: lo fanno perché narrano il mio passato e mi causano una commozione, o quei dischi funzionano meglio dei dischi di oggi? Rispetto al pezzo, pensavamo a Boris, la serie: volevamo prendere un argomento, cioè la scrittura di una canzone, e raccontarne gli stereotipi. E nei quali spesso ci siamo ritrovati, io stesso vorrei scrivere per Mina, e quante volte mi hanno detto di trasferirmi a Milano. Non è una canzone di denuncia, ma di presa d’atto, una presa di coscienza.
C: Per liberarsi definitivamente!
D: Sì, abbiamo deciso di mettere tutti i cliché qui: di cosa bisognerebbe parlare, dei migranti? Sì, non sarebbe sbagliato… ci si domanda sempre se le proprie parole aggiungano qualcosa al dibattito mediatico, ci piaceva omaggiare la solitudine dell’uomo davanti un foglio bianco che sta per scrivere qualcosa, un omaggio a questo mortale che sta per dire la sua in un momento in cui tutti dicono la loro.