Si riparte, la nuova stagione è iniziata…
Quest’anno voglio suonare di brutto!
Lo stai facendo nel modo sbagliato.
Emergere non è mai stata cosa semplice, è frutto di impegno, creatività, studio, attenzione alle piccole cose e un pizzico di occhio sul presente.
Sebbene sia tornata “di moda” la musica emergente, complice la vastissima diffusione di palchi e palchetti in giro per l’Italia (spesso contest a pagamento), quella che si respira non è aria di fermento culturale come si vorrebbe far credere, bensì di una sfrenata corsa al “suoniamo a tutti i costi”.
Marketing violento, pressing mediatico online e illusioni di successo portano “l’artista” a dover essere manager di se stesso, e quindi ad adottare anch’egli le medesime tecniche operative tipiche del comunicatore, tanto che difatti sempre più spesso la musica la fanno i laureati in Scienze della Comunicazione piuttosto che i musicisti.
Capita di sentire, da improvvisati luminari, discorsi come: “Sai dovresti fare cose più indie” oppure “Quel gruppo non ha stile” o ancora “Questo progetto è stupendo, è uguale a Tizio o Caio”, e in tutto ciò ci sono band osannate per il proprio gusto nel vestire o per i gadget che propongono. La cosa in altri tempi avrebbe fatto rabbrividire anche uno poco informato, oggi invece è accettata di buon grado da molti.
Il musicista a questo punto trascurando di fatto la propria produzione, che diventa mera imitazione di progetti già affermati, non spende tempo nella sperimentazione ma si inserisce forzatamente in contesti dove è proprio il cliché a farla da padrone; in questo modo però non fa che infilarsi nel gregge senza distinguersi, andandosi a prendere una partizione sempre più misera di pubblico che, bombardato costantemente da spazzatura, sarà ancora più confuso e preferirà comunque una birra in tranquillità piuttosto che recarsi al live di un clone in un locale triste e sperduto.
Ma torniamo “Sul Palco”. Spesso i malcapitati musicisti si trovano a loro insaputa su palchi pericolanti o peggio a suonare per strada, il che è sì molto punk, ma anche sconsolante poiché per essere lì hanno contattato per un mese tutti gli amici, caricato e scaricato pesanti strumentazioni quattro volte in un singolo live, preso accordi con organizzatori, effettuato chiamate, tutto rigorosamente gratis (e a volte, come dicevo in apertura, si paga pure).
Vorrei stimolarvi quindi a selezionare attentamente un live da un altro, un posto da un altro, un organizzatore da un altro! Come quando siete nel vostro negozio di fiducia a scegliere il pedale per la vostra chitarra o le pelli del vostro rullante, auspico la stessa maniacale dedizione. Lo farete per voi stessi e per la categoria.
Ora vorrei delucidarvi sulla questione cachet.
I suddetti cachet sono stati rilevati su un campione di venti locali di Roma con altrettante formazioni di dilettanti e di professionisti. Traete voi le vostre conclusioni.
Non voglio soffermarmi solo sulle differenze di pagamenti in quanto tali, ma sull’enorme pregiudizio che divide la categoria dei musicisti. Sono d’accordo che un buon musicista jazz vada “sempre” pagato dignitosamente alla luce dei suoi studi, ma non capisco perché se lo stesso musicista si toglie la giacca elegante e va a suonare in un gruppo cover debba prendere soldi solo se si porta gli amici da casa!
Per non parlare poi degli emergenti che suonano musica originale e che sono bistrattati a priori, come se per fare il professionista si dovesse suonare solo cose d’altri. Mah.
Per una volta però non diamo la colpa a questo o a quel gestore, anche fosse il cosiddetto “localaro” senza scrupoli e velleità artistiche, ma guardiamo, come dice il detto, “la trave nel nostro occhio e non la pagliuzza in quello dell’altro”: se siamo noi i primi a recarci ovunque pur di suonare, la categoria non ne beneficia di certo.
Il gestore non ha denari da darci se il suo volume d’affari non gli consente di superare le spese di gestione, e quindi di rimanere aperto. È un ragionamento semplice: se ci sono soldi per lui ce ne saranno anche per noi; il guaio è che quando il locale non guadagna abbastanza resta comunque aperto, e tocca al musicista lavorare/suonare gratis.
Nei favolosi anni ‘90 (in realtà molti si lamentavano già allora) i locali guadagnavano il triplo, e davano comunque cachet “normali” a musicisti valenti, che in tal modo riuscivano, sebbene non guadagnassero cifre da chirurgo, a fare della musica una professione.
Il problema quindi non è il locale ma è tutto il circuito. Se provassimo a suonare di meno a percentuale o peggio gratis, per assurdo vedremo girare più soldi, ne sono sicuro.
Come faccio al solito nei miei articoli, è al buon senso che vi invito. Non dimentichiamo che ormai lo si voglia o no siamo Europei e non solo italiani, e che ogni giorno le nostre figuracce aumentano agli occhi dei nostri “vicini”; è proprio così che nascono le barzellette, da storie vere che poi diventano racconti, poi ricordi, tramutandosi ancora in detti popolari e in ultimo in sberleffi.
Invertiamo la rotta, per quanto ci è concesso.
Al prossimo numero!
Sergio Di Giangregorio (Boiler Studio)
Ciao Sergio Bell’articolo… molte delle cose che dici sono giuste, anche se secondo me sono poche le band “emergenti” capaci, per questo suonano gratis e partecipano ai “festival” perché in condizioni normali non li farebbe suonare nessuno!
Parliamoci chiaro, i musicisti bravi non suonano gratis….
Se mi permetti, vorrei dire a tutti i musicisti che anche quando partecipano ad un festival “gratis” stanno comunque arricchendo locali o “organizzatori vari” .
Credo che per chi è alle prime armi o vive la musica per “hobbit” sia giusto partecipare a festival e suonare anche gratis per fare esperienza, ma se ti ritieni un musicista vero e ti piace scoattare con la tua chitarra o sfraccassarti le dita sulle corde del basso, dimostra quanto vali e suona solo quando ne vale la pena..
tutto il resto…. è mancia….