– di Sara Fabrizi –
“Signore è stata una svista, abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista”.
A volte per ottenere ciò che si vuole si deve giocare duro. All’occorrenza anche barare quando la posta in gioco è alta. Che sia una donna che si desidera fino a stare male, o che sia la propria indipendenza artistica. Ivan ci insegna in questo suo album, omonimo, venuto dopo il controverso Seni e Coseni, che la propria essenza va difesa strenuamente.
Se la produzione esterna preme per un sound più sofisticato, in linea con i tempi, Ivan risponde sfoggiando di nuovo i suoi chitarroni, cornice perfetta alle sue storie giornaliere di amori, ricordi e indolente mal riuscito adattamento alla realtà. Se la sua genuinità creativa è costantemente corteggiata da artifici che rendano tutto più roboante, egli non si scompone più di tanto e, pure con qualche lieve concessione alle lusinghe degli 80s, mantiene la sua integrità lirico-compositiva.
La scelta dell’omonimia per un album la dice lunga sulla sua volontà di mostrarsi così com’è, spingendo su un marchio di fabbrica del tutto naturale e mai cristallizzato in uno schema. Gli otto brani che popolano questo album, restituendoci un Ivan che temevamo di aver smarrito nel precedente, spaziano nel serbatoio di ricordi veri o presunti che creano storie intime ma universalizzabili.
La prima traccia è semplicemente una delle sue ballads capolavoro. Signora Bionda Dei Ciliegi è l’amarcord di una storia giovanile, con una donna molto più grande. Che sia autobiografica o meno non lo sapremo mai, ma di certo ci sembra di viverla in prima persona tra quelle liriche che sanno di impressionismo e verismo, cullate da piano e chitarre lievi che all’occorrenza crescono, appena sostenute da un synth che conferisce verve. “Davanti a quel divano dannunziano risento la sua mano”. E l’immagine è chiara ed eloquente. Elegia del proibito, raccontata nel modo più candido possa esistere. Di romanticismo gronda questo album.
Palla Di Gomma racconta la fine di un amore e tutto il tripudio emozionale che ne consegue. Belle chitarre, meravigliosi arpeggi, synth che fa crescere tutto in quel ritornello “uo uo uo uo..” che come un mantra serve forse ad esorcizzare il dolore.
Altra traccia portante del disco è Il Chitarrista. Una storia di baro e di desiderio per una donna, soddisfatto giocando a poker con “il mio mazzo di carte truccate”. Brano a dir poco godibile, in cui Ivan si diverte tanto con le sue chitarre e con un riff che rimarrà nella storia esternando tutta la sua anima rock’n’roll di matrice americana. Ed è quel riffone posto al seguito della trilogia lirica “con le gambe intorpidite, le scarpe ancora slacciate, e con il mio mazzo di carte truccate” a chiudere in maniera secca ed incisiva il pezzo. I riffoni la fanno da padrone insieme agli arpeggi, delineando un album più che mai chitarristico.
140 km/h ne è un chiaro esempio. Una storia di confine, tratteggiata nel vento di Capo d’Istria. Questo dei confini geografici, ed affettivi, è un po’ un leit motiv, ci dice qualcosa a proposito la mitologica Lugano Addio. Navi è un brano piacevole che parla di viaggi, ancora una volta viaggi e limiti, fisici ed emozionali. Gran Sasso è un tributo alle sue origini abruzzesi. È un po’ la Country Roads (John Denver) nostrana. Fu un uomo di cuore, radicamento territoriale e propensione all’internazionalità (in questo album si veda Nino Dale and his modernists). In una tensione continua fra il porto sicuro e lo spiegare le vele, tenuti in equilibrio sul filo della propria integrità e spontaneità artistica.