– di Giacomo Daneluzzo –
“Viviamo tempi molto interessanti”, diceva Christian Slater nell’acclamato techno thriller Mr. Robot. Era il 2016: in quel periodo la Dark Polo Gang, collettivo trap romano ai tempi ancora agli esordi, iniziava a farsi conoscere in tutta Italia, diventando un punto di riferimento per il nascente contesto trap nostrano.
In quel periodo io, sedicenne fissato con la musica, intraprendente e analitico, oltre a guardare Mr. Robot osservavo con interesse e straniamento la rapida crescita del fenomeno trap in Italia, che sembrava rubare spazio al pop mainstream plasticoso delle radio e della televisione, e non mi persi una strofa di Tony Effe, Wayne Santana, Pyrex e Dark Side, ovvero i membri fondatori della DPG, nonché alcuni dei più popolari (e quantomeno bizzarri) protagonisti di questa neonata scena.
Ed è vero, davvero viviamo tempi molto interessanti. Trovo curioso come, dopo anni di sfrenati sentimenti nostalgici nei confronti degli anni ‘80 in ogni arte, i “tempi” della nostalgia per il passato si accorcino sempre di più, al punto che quest’effetto nostalgia può scaturire anche ripensando, nel 2020, a quei tempi, in cui la DPG era agli esordi e metteva in free download Crack Musica, Succo di zenzero e The Dark Album, trilogia di mixtape che portava sonorità e linguaggi che non si sentivano così spesso nel panorama musicale – o meglio, non si sentivano ancora così spesso.
Ritengo che la “nostalgia” per il 2016 che dà ragione di esistere a Dark Boys Club sia una conseguenza del fatto che si è creata, negli ultimi anni e molto rapidamente, una sorta di “mitologia” attorno al fenomeno trap, e in particolare attorno a figure centrali del fenomeno come la Dark Polo Gang. La DPG è nata con una vena potentemente autoironica, che faceva del prendersi ben poco sul serio, nelle canzoni come in ogni apparizione pubblica, una colonna portante della produzione lirica; questo ha permesso ai nostri Fab Four della trap di avere successo con frasi apparentemente (o forse effettivamente) prive di significato e, cosa più importante, costruirsi un’estetica riconosciuta e condivisa da una solida fanbase e da un’intera scena di colleghi.
Ecco, l’impressione è che qualcosa sia sfuggito di mano; forse, nel ripetersi continuamente di stilemi e cliché del genere, nel calcare così potentemente la mano su certe forme d’espressione, si è un po’ persa quella componente del “non prendersi sul serio”, che è stata sostituita da una forma così profondamente interiorizzata da risultare canonica, degna di considerazione alta, anche al di fuori dell’accezione ironica e autoironica. Ecco perché Dark Boys Club appare quasi pretenzioso, nel suo voler essere un ritorno a delle “gloriose” origini: perché prima era uno scherzo e non ci si sarebbe mai aspettati, né augurati, che un giorno, neanche troppo lontano, sarebbe diventato “il canone” a cui riavvicinarsi. Side ha intrapreso la carriera solista e i tre membri restanti sono diventati personaggi mediatici, ancor prima che musicisti: è ovvio che sia cambiato tutto e che non si possa tornare davvero al 2016, se non altro perché la spontaneità degli inizi ora è stata inevitabilmente sostituita da una nuova consapevolezza delle logiche di mercato e della richiesta che proviene da un certo pubblico, ormai molto più numeroso.
Musicalmente credo che la DPG sia uscita migliorata dall’esperienza con Michele Canova Iorfida, che ha prodotto il loro esordio in major, Trap Lovers: quella di Dark Boys Club è una produzione sicura, diversificata, con Sick Luke su sei tracce, Youngotti su tre e una squadra di altri cinque produttori alternati tra loro, tra i più presenti nel panorama trap italiano. Non è richiesto nessun tipo di innovazione, che infatti non c’è, visto che l’obiettivo – solo in parte raggiunto – è quello di riproporre le sonorità e i “mood” dei primi lavori del gruppo. Piuttosto la novità, l’elemento per così dire “fresh”, sta nelle numerosissime e inedite collaborazioni (da Salmo a Ketama126, da Capo Plaza a Traffik), che però forse tradiscono una difficoltà da parte della DPG di reggere il peso di un mixtape: infatti su dieci tracce, per meno di mezz’ora, i tre artisti principali si presentano “da soli”, quindi senza collaboratori, soltanto nelle prime due.
Il mixtape, che non è tanto diverso da un album, visto che è distribuito da una major e si compra, non riesce a rappresentare un ritorno alle origini, ma neanche a essere particolarmente interessante se preso come novità all’interno del genere, né a livello di basi musicali né tantomeno di testi: Salmo (che ha ormai 35 anni) in Pussy, poco prima di dire che mette “due dita in fica alla tua amica che straripa come Dua Lipa”, si definisce un “tipo all’antica” e non posso che dargli ragione, soprattutto per come lui, la DPG e buona parte della scena rap si approccia alle questioni di genere – ma qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo.
Non voglio però unirmi al coro di voci che hanno sparato a zero su Dark Boys Club, stroncandolo immediatamente dopo la sua uscita: come scrivevo all’inizio, la Dark Polo Gang rappresenta ancora una delle facce più interessanti, ma anche più capaci di comunicare a un grande pubblico, del fenomeno trap. E se il mixtape non riesce a essere davvero convincente come “ritorno alle origini”, comunque è un interessante sviluppo della storia del gruppo, soprattutto per la necessità stessa di pubblicare un disco come questo. Non sono della scuola di pensiero secondo cui se un prodotto artistico vende allora è da considerarsi di qualità, però probabilmente, in questo particolare momento storico, il pubblico italiano ha bisogno di questo: un disco che tende al passato, pur senza riuscirci del tutto, che tende alla novità, pur senza esserlo. E ancora una volta il trio di Rione Monti ha indovinato la formula per dare ai suoi ascoltatori quello che cercano.