– di Manuela Poidomani –
I Keemosabe sono un gruppo pop-rock italiano unico nel loro genere. I “fratelli da madre diversa” (questo il significato del loro nome) hanno iniziato la loro carriera effettiva all’estero ma nell’ultimo anno si sono fatti conoscere nella loro terra natìa, grazie anche alla partecipazione all’ultima edizione di X Factor Italia.
In occasione della pubblicazione del nuovo singolo intitolato The Lights Go Down, che anticipa il loro album Look Closer, in uscita ad autunno, abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere col frontman Alberto Curtis, chitarra e voce del gruppo.
All’interno del vostro genere siete molto apprezzati anche a livello internazionale; secondo voi come mai?
All’estero il livello di preparazione media di un qualsiasi artista (che sia cantante, musicista o cantautore) è più alto rispetto all’Italia, perché si dà molta più attenzione alla preparazione professionale. Non voglio sminuire gli artisti italiani, ma credo che negli ultimi anni si siano sviluppati troppi generi come trap, emo-trap o comunque con “beat fatti in casa”, che hanno portato alla diffusione dell’idea che chiunque abbia un computer può fare musica di un certo livello, anche in camera sua. Un pensiero comune ed errato. Io e Sebastiano, il batterista del gruppo, ci siamo formati come musicisti a New York, dove abbiamo vissuto per due anni. Lì, a soli diciott’anni, abbiamo studiato jazz in una scuola professionale, grazie a una borsa di studio che avevamo ottenuto. Abbiamo capito fin da subito che cosa fosse il “senso del dovere” e questo ha influenzato il nostro approccio nel vedere e fare le cose: la puntualità, la preparazione in tutti gli ambiti – come anche i social e il marketing – e la ricerca delle persone giuste con cui collaborare. Sono tutte cose che dovrebbero essere alla base di chi, nella vita, vuole fare il musicista di mestiere.
Obiettivamente siamo all’inizio del nostro percorso e la strada davanti a noi è ancora tutta in salita. Ma quest’etica professionale è ciò che ci sta facendo partire col piede giusto. Stiamo mettendo le fondamenta per rendere il nostro progetto internazionale, non solo italiano. Aver vissuto fuori dall’Italia ci ha portato anche alla scoperta di nuove sonorità, così da contraddistinguere ciò che facciamo dalla pura “musica italiana”. Per tutti i giovani che si approcciano a una disciplina artistica c’è bisogno di valorizzare lo studio: in America se vuoi fare il musicista hai a disposizione gli stessi strumenti di chi vuole fare l’avvocato, il dottore o l’ingegnere. Ci sono strutture universitarie o post-liceo molto valide, che permettono di rendere l’arte una professione. In Italia devo dire che quest’aspetto, purtroppo, manca.
Quindi non avete progetti futuri su album o singoli in italiano, giusto?
Esattamente. Abbiamo ricevuto diverse proposte da produttori e case discografiche, che ci chiedevano di creare qualcosa in italiano; abbiamo sempre rifiutato per mantenere la nostra autenticità di progetto internazionale. Non avrebbe senso cantare la nostra musica di adesso in un’altra lingua. Avere un’idea molto forte alla base, che ti differenzi dagli altri, è molto importante in qualsiasi ambito. Anche quando ci ispiriamo ai nostri artisti preferiti non imitiamo mai il loro lavoro, ma stiamo attenti al dettaglio per renderlo un prodotto targato Keemosabe.
Il vostro progetto è nato a New York, si è sviluppato sul Lago Maggiore, si è spostato a Londra per poi infine approdare a Milano. Vi siete stabilizzati o volete continuare a spostarvi?
Io e Sebastiano abbiamo iniziato a suonare insieme a quindici anni, sempre come chitarrista e batterista. A New York abbiamo stabilito degli obiettivi da raggiungere negli anni a venire con un progetto ipotetico: solo due mesi fa, quando abbiamo ritrovato questi obiettivi, ci siamo resi conto di aver effettivamente realizzato quelli che ai tempi erano i nostri obiettivi. Non nego una grande soddisfazione nell’accorgerci che pian piano si sta realizzando il progetto di avere una band con cui poter girare il mondo
Quando siamo tornati a casa nostra, sul Lago Maggiore, abbiamo ristrutturato una vecchia casa del nonno di Sebastiano, in mezzo ai boschi del novarese, e abbiamo creato una sala prove che è diventata un punto di ritrovo per tutti i musicisti della zona. Poco dopo si sono aggiunti Andrea e Pino, tastierista e bassista. Ai tempi io e Sebastiano, però, abbiamo vinto un’audizione per un master universitario in musica a Londra e saremmo dovuti partire di lì a poco. Così abbiamo deciso di partire e trasferirci tutti e quattro, insieme. Questa follia è stata la nostra salvezza e senza il progetto non sarebbe mai partito. Abbiamo suonato per tutta Londra per un anno e mezzo, partendo da piccoli locali fino ai primi sold out; con una raccolta fondi abbiamo registrato il nostro primo EP agli Abbey Road Studios di Londra (prestigiosi studi storici di Londra, in cui registrarono i Beatles e moltissimi altri grandi musicisti, inglesi e non, ndr). Siamo tornati a Milano con l’idea di far uscire il disco in primavera per poi ripartire subito con un tour che attraversasse Germania, Russia e Inghilterra. Le disposizioni per fronteggiare l’emergenza sanitaria non ci hanno permesso di attuare il nostro progetto, ovviamente; quindi ora continueremo a fare musica, in Italia, finché non potremo tornare all’estero e realizzare qualcosa di concreto per il nostro futuro nel mondo della musica.
Senza la possibilità di muovervi sareste gli stessi Keemosabe di sempre?
Da quando abbiamo diciott’anni siamo abituati a spostarci continuamente. I testi riflettono il dualismo del nostro gruppo: da un lato una parte riflessiva, introspettiva, che rappresenta la dimensione naturalistica, italiana, in cui viviamo; dall’altro invece c’è tutta la sfera della foga, dell’ammasso di informazioni da cui vieni investito quando fai parte di una grande metropoli internazionale, come New York o Londra.
L’ispirazione ci arriva quando ci ritroviamo nel nostro posto, in mezzo al bosco; ma allo stesso tempo penso che questo progetto non esisterebbe se non avessimo fatto tutte le esperienze all’estero che abbiamo avuto la fortuna di fare. Ognuno di noi vive per la musica e grazie alla musica comunichiamo quella parte di noi che non si può esprimere a parole. La musica è un’estensione dell’essere; noi diamo un’estensione di noi stessi attraverso qualcosa di astratto.
E a questo proposito voi come state vivendo la vostra quarantena? State continuando a produrre anche da remoto?
Certo. E anche da remoto continuiamo a scambiarci idee e informazioni. Stiamo lavorando a dei video live e anche se manca la parte “magica” del fare musica, quella dell’ispirazione dalla natura, ci stiamo adattando molto bene alla situazione. Non vogliamo rimanere fermi. Forse questo è l’unico momento nella storia in cui è lecito “registrare male”, perché che tu sia i Rolling Stones o un artista emergente comunque pubblichi i video in pigiama e con l’effetto “pixelato” del telefono, non professionale. In un certo senso la quarantena ha reso più democratico il nostro settore.
La tua pronuncia inglese è praticamente perfetta. È frutto di studio o qualcos’altro?
Mio padre è un grande appassionato di musica e da quando avevo tre anni ascolto musica anni ‘70 in inglese. Ho sempre cercato di capire le parole e il significato, come i testi di queste canzone dicessero qualcosa. Vivendo poi fuori dall’Italia ho lavorato tutti i giorni sulla pronuncia e sulle inflessioni della voce. Per questo, volendo migliorarmi sempre di più, ho preso lezioni di dizione per un anno, da un ragazzo americano.
Di cosa parla il vostro nuovo singolo The Lights Go Down?
Di una crisi esistenziale. Il video ruota attorno al dualismo di una ragazza, che vive la sua quotidianità in modo spento e apatico, ma che ha la capacità di ritrovarsi in una continua visione onirica, dove libera la sua vera essenza e riesce a essere se stessa. Tuttavia il video è stato realizzato in un giorno e mezzo e con un budget esiguo, quindi non abbiamo potuto rappresentare quest’idea come avremmo voluto, cioè come un film hollywoodiano.
Quando ho scritto questo pezzo mi stavo interessando al filosofo americano Alan Wilson Watts, che fa un esempio relativo a un attore di teatro, che ha la necessità di indossare molte maschere, ruoli e personalità distanti da sé; alla fine perde la sua vera essenza. Si cerca di apparire sempre di più, dimenticandosi di ciò che si ha dentro. La canzone è un inno all’introspezione e abbiamo ripreso una sua celebre frase, inserendola nel pezzo finale con una voce fuori campo. La traduzione è: “Dietro le quinte tu, attore, hai sempre il piccolo sospetto di non essere te stesso e ciò che credi di essere”. Se si vive la vita cercando di soddisfare le aspettative di qualcun altro alla fine si perde l’essenza di sé, ciò che si è davvero. Nell’insieme l’album esprime meglio una dimensione di ricerca di se stessi, di ritorno all’essenzialità. È un’evoluzione di questa protagonista, che parte da un senso di spaesamento fino ad arrivare a capire che cosa vuole perseguire, nella sua vita.
Questo brano ha avuto la grande occasione di essere stato masterizzato dai vincitori di Grammy Awards Tommaso Colliva e Giovanni Versari. Che esperienza è stata poter lavorare con questi due colossi del mondo musicale?
È stato bellissimo ma anche molto particolare: quando ci siamo formati come gruppo ci siamo accorti di quanto i nostri gusti musicali fossero totalmente differenti e anche per questo facciamo un rock con tante diverse sfaccettature; confrontandoci abbiamo capito che i nostri dischi avevano in comune proprio Tommaso Colliva, a livello di sonorità. Lo conoscevamo per i suoi bellissimi lavori passati. A Londra ci eravamo incontrati per caso a un concerto dei Foals e ci siamo messi a chiacchierare. In autunno, finito di registrare il disco, ci mancava il mix dei diversi singoli, forse l’operazione più importante. Così gli abbiamo scritto ed è venuto a sentire il progetto in studio. Siamo rimasti felicemente sorpresi che un colosso musicale come lui si sia interessato subito a noi. In futuro vorremmo vorremmo coinvolgerlo in modo più attivo, lavorando con lui fin dal principio e non solo nella fase finale.
Tre aggettivi per descrivere la vostra esperienza a X Factor?
Interessante, divertente e strana. Sicuramente da una parte ti dà un’esposizione mediatica unica; tuttavia dall’altra si rimane un po’ con la nomea di “quelli che hanno fatto il talent per arrivare al successo”. Io lo consiglio a qualsiasi artista che vuole emergere e raccomando anche di essere ben organizzato sulle carte da giocarsi subito dopo. Per noi come gruppo è stato un bel percorso che ci ha fatto maturare tanto.
Qual è il significato del blu che predomina nel vostro ultimo videoclip?
Abbiamo sempre legato l’immagine dei Keemosabe all’arancione desertico, che rappresentava quello che facevamo e che eravamo. In questo progetto, invece, ci piaceva l’idea di trovare un colore opposto. L’idea del blu elettrico, molto accesso, rappresenta per noi l’idea del rinnovamento. È nato tutto in modo naturale, quando cercando sponsor e collaborazioni abbiamo trovato un’azienda produttrice di lenti a contatto colorate; si sono interessati al nostro progetto creando una vision da legare al loro prodotto.
Keemosabe vuol dire “fratelli da madre diversa”, quindi tutti e quattro dobbiamo avere una visione comune, come avere gli stessi occhi. È una sponsorizzazione ma ci ritroviamo e ci rispecchiamo molto in questo pensiero. Non è un mero finanziamento, perché condividiamo il messaggio profondo che ci sta dietro.
Un obiettivo che vi siete imposti per il 2020?
Ci piacerebbe fare un tour europeo, anche in apertura di qualche grande artista, se non come artisti principali. Vorremmo iniziare a girare a tempo pieno in diversi paesi attraverso la nostra musica. Come obiettivo a lungo termine, invece, riempire gli stadi.