– di Sara Fabrizi –
Dopo il testamento, rock e romantico, di Nessun Pericolo Per Te cosa aspettarsi dall’artista che ha inventato il concetto di rocker italico derivandolo dal cantautorato settantino e farcendolo di tutte le rabbie e delusioni dei nati nell’Italia del boom?
Un disco di distensione, di defaticamento, di intimistico ritorno al fare musica solo per il gusto di farla. Via quelle tensioni sociali e quegli inni da manuale di sociologia (rock) che abbiamo imparato ad amare. Via pure l’autoironia e l’autoreferenzialità che riversa sul suo personaggio, troppo spesso costruito a tavolino dai media scavando un solco sempre più profondo fra l’artista e l’uomo. Ritornare a fare canzoni per puro diletto, per avere qualcosa da strimpellare, per avere qualcuno a cui raccontarsi.
In una sorta di parabola circolare recupera quel mood che doveva avergli ispirato il primo disco (Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone, 1978). Ed ecco che nascono gli 8 brani di Canzoni Per Me. Un album bello, dolce, tenero, con qualche guizzetto rock che non guasta. Come lo era stato l’album del ’78 ma con il disincanto di 20 anni dopo, un lasso temporale in cui può cambiare tutto, può non cambiare nulla.
Prendiamo Laura. L’ultima sua grande ballad. Laura è l’evoluzione di quelle figure di donna, fragili e memorabili, che ha dipinto in questi 20 anni. Laura è una donna che scopre di aspettare un bambino e tutto nella canzone ci racconta lo stupore, la gioia, e anche la paura, che un evento del genere può comportare. Arpeggi delicati, atmosfere incantate e qualche piccolo inserto di moog come tributo ai suoi esordi. Poi il pezzo cresce e sfocia in un rock corale tutto da gridare. Le chitarrone infuocate urlano la felicità e l’emozione. Quindi lasciano di nuovo il passo ai giri di acustica, per poi trascinarla di nuovo nell’esplosione di quel tripudio di sentimenti per finire poi in dissolvenza. Quanto si ama questo pezzo, non lo so dire. Degli 8 episodi del disco il più incantevole.
Fa tremare quasi quanto Tu Che Dormivi Piano, ma per motivi diversi. Se vogliamo parlare di dolcezza l’altro momento heartbreaking dell’album è E Il Mattino. Balladina rock che è un inno alla gioia, a recuperare le cose semplici che fanno star bene. Intro con percussioni, poi arriva la chitarra, poi la batteria che scandisce i battiti di un cuore semplicemente felice. Il pezzo è tutto un alternarsi di momenti più delicati con una voce quasi sussurrata e crescendo rock fino ad una conclusione di percussioni e simil campane. È il brano di apertura, fra l’altro. Ed è emblematico di come Vasco voglia darci solo il buono qui, solo sorrisi ed un arrendersi consapevole a certe gioie e a certi tormenti. L’amore, in tutte le sue sfaccettature dalle più tenere alle più sensuali, la fa da padrone in questo disco.
Vasco espone senza remore il cantautore che ha dentro e si abbandona a questo monologo intimista, a questo racconto a cuore aperto. Ora che ha gli anni, l’esperienza e le difese per farlo senza timore di essere ferito/giudicato/stigmatizzato. Che gliene importa ora di essere giudicato un fragile per esprimere il suo amore e passione per una donna? O per emozionarsi per la maternità come nemmeno una donna saprebbe fare? O per essere additato come un lascivo perché vuole possedere la sua donna sulla poltrona di casa sua con il rewind? Me lo immagino con quel sorriso sereno e impudente, come a dire “pensatela come volete”.
In L’Una Per Te si abbandona ad una dichiarazione sfrenata, in Quanti Anni Hai si interroga sull’opportunità di certe relazioni (plurime, parallele), in Io No… recupera quell’irriverenza rock generazionale di tanti suoi inni del passato. In La Favola Antica narra una storia commovente andando a condirla con del sano blues.
In Rewind dà sfogo a tutto il suo ardore trasponendolo in un pezzo quasi da disco dance, trascinante. Fa tutto ciò che vuole in questo disco, come se lo facesse davvero solo per sé. Come se fossero i pezzi scritti da un cantautore in erba, quelli che tiene nel cassetto e che ci penserà 1000 volte prima di rendere pubblici. Come se nemmeno gli interessasse venderli e vederli acclamati e corteggiati da pubblico e critica. Recupera la dimensione più profondamente soggettiva del fare arte. Davvero un “Art for Art’s Sake” sullo sfondo di un contesto italiano di decenni che si intrecciano in una storia personale e sociale.