– di Sara Fabrizi –
Mentre la sua veste di rocker ribelle, ferocemente ironico e “poco raccomandabile” gli viene cucita addosso da stampa di settore ed opinione pubblica Vasco pensa bene di continuare per la via tracciata sfornando il quinto album. Vado Al Massimo è un bel centrifugato di tutto ciò di cui era stato capace finora, dalle ballads profonde e bellissime all’irriverenza che faceva tanto punk nostrano. L’operazione di derisione e sbeffeggiamento di cui fu oggetto per quel suo personaggio (quanto reale?) un po’ barcollante e dedito ad una vita dissoluta in realtà fu felicemente funzionale alla sua definitiva affermazione presso il grande pubblico.
Abbandonata l’immagine di rocker arrabbiato ma di nicchia Vasco esplora i terreni del commerciale che sono quelli, che per un metro di giudizio antico, decretano il successo. E tanto più i genitori scuotono la testa, tanto più i ragazzi dei primi edonistici e senza bussola anni 80 se ne innamorano. Vasco dice e dà loro ciò di cui hanno bisogno, in quel preciso contesto socio-storico. La realtà era mutata in maniera repentina dalla fine dei 70s, un cantautore rock interpreta semplicemente i tempi. Geniale l’idea di portare la title track al festival di Sanremo, classificandosi ultimo, dando mostra senza filtro alcuno della sua essenza. Un caso estremo di sincerità nell’arte, “sono ciò che sono”, nient’altro che questo ragazzotto dall’aria confusa e barcollante ma che se ti metti ad ascoltarlo bene puoi coglierne il messaggio, solo apparentemente superficiale. E palesare tutto ciò proprio nel templio del conformismo socio-musicale italiano. Vado Al Massimo è un reggae irresistibile.
Così estivo, così leggero, nel dichiarare il suo stile di vita gioiosamente godereccio. E dà pure una frecciatina al giornalista Nantas Salvalaggio che in un articolo lo aveva etichettato come un eroinomane allo sbando. “..meglio rischiare, che diventare come quel tale, quel tale che scrive sul giornale”. L’andamento reggae languido e ruffiano permea tutto il pezzo per poi salire in un guizzo rock che accelera tutto per ribadire che Vasco va “a gonfie vele”. Come beffare chi si faceva beffe di lui. Qualcosa di simile, per altre motivazioni, lo fece Dylan con Ballad Of A Thin Man nel 1965. Il controverso rapporto fra stampa e rock stars. Che vuole vivere al massimo, al limite, rischiando, Vasco lo fa presente più volte in questo album. Tra ribellione ironica e irriverenza sempre più noncurante del giudizio altrui.
Sono Ancora In Coma è proprio l’inno hard rock di questo mood estremo. Chitarrone infuocate. Credi Davvero è sempre su questa falsa riga, ma qui le riflessioni si fanno un po’ meno superficiali e si tocca il tema della percezione dell’individuo, della maschera, del disvelare totalmente la propria personalità. Il tutto sorretto dalla premiata ditta delle chitarre rock di Massimo Riva e Maurizio Solieri.
Questo è un album in grado di regalarci emozioni adrenaliniche e toni forti, se non sovraeccitati, quanto nostalgia, dolcezza e lacrime. Al suo lato romantico Vasco non rinuncia, retaggio della sua originaria meravigliosa anima cantautorale. E qui ci elargisce 2 perle. Ogni Volta è una tenera disarmante ammissione delle proprie debolezze. Si mette a nudo e si racconta, come pochi sono riusciti a fare. I cantautori parlano dell’anima, è vero, ma si guardano bene dal dare la loro anima in pasto agli altri. Un brano talmente intimo che, inizialmente, Vasco era riluttante a rendere pubblico. Doveva sentirsi incredibilmente esposto e vulnerabile mentre passava in rassegna ogni sogno infranto, ogni speranza delusa, ogni esitazione e inconcludenza. Le tastiere di Curreri ci cullano mentre Vasco si racconta. Poi cresce tutto sfogando nel ritornello dove la batteria diventa ritmo e conforto e rabbia. Si torna poi alla dolcezza e ai toni tenui con quei cori che sono un balsamo per il cuore sorretti da chitarre che intonano un bellissimo lamento. Poi cresce tutto di nuovo, stavolta anche le chitarre si infiammano per urlare la delusione. “Ogni volta che rimango, con la testa fra le mani, e rimando, tutto a domani!”. Un brano che è un coraggioso mea culpa, talmente bello da meritare l’auto-assoluzione dai propri peccati.
Altro momento heartbreaking dell’album è Canzone. Balladona di una nostalgia rassegnata e struggente. Il ricordo di una donna che non c’è più. Anche se ci sarebbero riferimenti alla perdita del padre. Comunque una mancanza che viene sublimata in questa elegia della malinconia amorosa. Un intro lieve di chitarre elettriche e voce che raccontano le sensazioni di non avere più vicino fisicamente l’oggetto del proprio amore. Si sale poco, c’è un andamento costante e circolare che fa un guizzo per suggellare quell’ “E’ stato splendido, amarti!” Il crescendo ci porta nella parte centrale del pezzo quando una sorta di forza positiva gli fa gridare “E quando un giorno ti incontrerò, magari per la strada, magari sotto casa tua...”
Si va avanti così, con propositività, nonostante la commozione, fino alla disarmante ammissione finale ripetuta più volte “E’ stato splendido, è stato splendido, è stato splendido, è stato splendido”. Anche La Noia può essere annoverata nel blocco romantico/cantautorale dell’album. Qui si fa una dedica al proprio paese natio, a quella realtà di provincia da cui tutti vogliamo fuggire e in cui tutti però restiamo impantanati affettivamente. Amore.. aiuto è un brano tutto sezione ritmica e provocazioni. Concessioni al funk e all’elettronica. Splendida Giornata è un altro brano dissacrante, chiara metafora di quello stile di vita che ti fa vivere in maniera adrenalinica ma che può anche bruciarti. Una sorta di “cogli l’attimo e non ti curare del domani”. L’importante è vivere al massimo ora. Iperrealistico manifesto, edonistico, dei tempi. Nel vuoto di valori e riferimenti ideali divertiamoci. Facciamolo di brutto.