Ironico, irriverente ma sempre in modo sottile e tra le righe più nascoste di questi nuovi inediti che tornano protagonisti dei Portfolio, in questo nuovo disco davvero molto interessante dal titolo “Stefi Wonder”.
E se ci venisse consentito di parlare di pop-fusion allora avremmo trovato una direzione buona per fotografare canzoni che hanno un taglio liquido che ricorda quella magistrale prova che diede Alex Baroni. Anche complice la timbrica e quel certo modo di cantare che distingue la produzione dei nostri, canzoni che hanno anche una facciata avanguardista con due brani strumentali che non attingono a forme e cliché ma solo a sonorità che si fanno libere di disegnare visioni. Oppure sono canzoni che custodiscono dentro anche lo zampino di fiati e programmazioni che in qualche modo ricordano il nuovo soul di Mario Biondi e che inevitabilmente ci riportano dentro i notturni metropolitani o le libere divagazioni dei propri pensieri.
E penso che potremmo dirne mille altre di cose su questo nuovo disco dei Portfolio. Ma su tutte, finalmente, torna la libertà espressiva di un melting pot di menti e di spiritualità diverse. Dal nucleo primordiale si passa sempre a derive di contaminazione senza una qualche soluzione di continuità. La musica, quando è libera di essere, è l’unica ragione di senso.
Sembra non avere una faccia precisa, una direzione, una collocazione. Questo disco sembra essere figlio dell’istinto. Qual è il vero filo conduttore, se c’è?
“Stefi Wonder” ha la faccia divertita ed irriverente di chi guarda con distaccata leggerezza la scena indipendente italiana, fatta di like e ascolti musicali distratti di 15 secondi.
Questa leggerezza, unita all’intento di rendere tutti i brani ricchi di groove e meritevoli di attenzione è stata la direzione che abbiamo cercato di seguire lungo tutto il disco.
Il fatto che non abbia una collocazione precisa nel panorama musicale è qualcosa che potrebbe anche in qualche modo farci piacere, perché testimonia il nostro intento di essere personali e non derivativi; in realtà non ci interessa più di tanto, ne prendiamo atto e stop.
Stefi Wonder è un disco guidato dall’istinto, certo, come tutti i nostri precedenti lavori. Non abbiamo mai pianificato a tavolino un disco, abbiamo sempre suonato quello che al momento ci andava di suonare.
Per chiudere: abbiamo scelto le canzoni che ci sembravano più adatte a formare un disco coinvolgente dall’inizio alla fine.
Anche i due momenti strumentali sono assai distanti l’uno dall’altro. Eppure sono convinto che esiste una sorta di omaggio a qualche riferimento personale. Sbaglio?
Non sbagli. Sono molto distanti, musicalmente e anche temporalmente.
Fluidità è in assoluto l’ultimo pezzo che abbiamo scritto e nasce da una sorta di improvvisazione, poi resa più strutturata, fatta durante le sessioni di registrazione dell’album. Scuola Strumentale Reggiana invece è uno dei primi brani realizzati per quest’album e lo abbiamo chiamato così in parte con ironia, in parte perché qui da noi, a Reggio Emilia, ci sono molte band (Giardini di Mirò, Julie’s Haircut, Dolpo e tanti altri) che fanno musica strumentale, una piccola scuola appunto.
Funky ma anche tanta tradizione e attualità. Dove puntate il vostro cammino? Cosa ricercate? Tradizione o futurismi?
Ascoltiamo veramente di tutto, sia musica attuale che cose più datate, ma la nostra ricerca punta diritto a fare belle canzoni, anche se può sembrare banale.
Interessanti a livello sonoro, nelle soluzioni ritmiche e curate negli arrangiamenti.
Rispetto al passato abbiamo puntato di più sulla forma canzone, anche perché abbiamo sviluppato le parti cantate insieme alle musiche, cosa che nei dischi precedenti non avevamo mai fatto, e quindi abbiamo adattato le strutture dei pezzi anche in funzione delle esigenze della voce.
Cerchiamo di fare dischi di qualità’ e fare crescere il nostro seguito, cercando di suonare il più possibile e in location stimolanti.
A parte i riferimenti didascalici nell’ultima traccia, questa volta la vostra terra d’origine come ha contribuito al disco e al suo suono?
Il titolo dell’ultimo brano più che didascalico è ironico. Qualche anno fa abbiamo partecipato a un Festival a Reggio Emilia e sui 10 gruppi che suonavano 10 erano strumentali. Zero cantanti! Chissà se per timidezza o per attitudine, ma a Reggio Emilia l’attenzione è sempre stata prima sulla musica.
Il nostro Appennino invece è sempre una ispirazione indiretta. Abbiamo la sala prove da sempre a Castelnovo ne Monti, con una grande finestra che punta alla Pietra di Bismantova. La sua silenziosa presenza è sempre con noi mentre scriviamo e proviamo.
Qualche citazione a luoghi mitici del nostro paese c’è nei testi, come l’Edel Weiss citato in “Sunshine”, una discoteca che ci ha regalato più di una serata memorabile.
E proprio parlando di suono mi colpisce l’evoluzione di “Scuola strumentale reggiana”: un finale che non mi sarei aspettato. Mi raccontate la genesi di questo brano?
È passato parecchio tempo dall’ultimo disco “DUE”. In questi anni abbiamo scritto e provato sempre senza la voce, in modo strumentale. “Scuola strumentale reggiana” era un brano abbozzato e fermo da un po’. Quando “Stefi Wonder” ha iniziato a prendere forma ce ne siamo ricordati perché ci sembrava coerente con il resto. E lo abbiamo concluso.
Il finale riprende e sviluppa in modo più energico il tema anticipato dal flicorno a metà brano. Il basso è uno strumento importante su questo brano. Nella prima parte ha un suono sintetico e una linea tematica. Nella parte centrale i bassi sono due e nel finale il suono diventa elettronico. Abbiamo cercato di sviluppare poche idee al meglio, spostandole tra i vari strumenti e giocando con i suoni.
I toni noir sono anche in “Agosto”, e qui la voce femminile di Claudia Domenichini. Perché questa scelta?
A differenza degli altri brani cantati del disco, dove noi stessi avevamo accennato le linee vocali, su “Agosto” avevamo solo un brano strumentale che ci piaceva molto.
Ma ci mancava una linea vocale efficace. Abbiamo collaborato già in passato con Claudia Domenichini, che ha un grande talento. Le abbiamo mandato il brano e le abbiamo chiesto di provare a trovarci una linea melodica. Ci è piaciuto subito quello che ha fatto e le abbiamo chiesto di registrarlo per la versione finale che e’ finita sul disco: il brano perfetto per il prossimo Sanremo.
Possiamo definire i Portfolio come un collettivo di incontri?
Suoniamo insieme dal 2003 e del trio iniziale siamo rimasti in due. Abbiamo vissuto diversi cambi di formazione nel tempo, e questo ha contribuito in parte all’evoluzione del nostro suono. Quello che è rimasto è la libertà nelle scelte musicali’ e l’attitudine a seguire il nostro istinto.
A chiudere: cosa c’è dietro “Stefi Wonder”, la ricerca di un cliché o la voglia di dissacrarlo?
Principalmente molta ironia, che si intuisce già dal titolo dell’album. Volevamo scherzare sull’idea ‘Provincia emiliana meets California”. Gli inglesismi presenti nei testi, i vari “C’mon baby” e “Sunshine” hanno quello spirito. Anche se la parte musicale per noi è una cosa molto seria. Ci siamo divertiti e impegnati a provare varie soluzioni e registrare direttamente in sala prove, con suoni grezzi ma nostri, usando i plug in il meno possibile. Avevamo in mente questa attitudine e questa immagine che ci ha guidato nella scelta dei brani, nei testi e negli arrangiamenti.