di Riccardo De Stefano
foto di Danilo D’Auria
Oggi la cosa più rara che può capitarmi è di rimanere stupito da qualcosa. Dopo tanti anni che ascolto e lavoro nella musica, mi sono reso conto che devo essere grato anche solo quando qualche artista azzecca un singolo. Nel piattume generale di pop e trap che oggi ci circonda, c’è da domandarsi chi, tra i nuovi autori, ha ancora la voglia di fare qualcosa di diverso.
Sia benedetto Achille Lauro.
Tra tutti quelli che lo detestano e disprezzano e chi invece lo considera un genio, rimane alla fine solo Achille Lauro, con la sua storia personale, il suo percorso musicale folle, in barba alle aspettative e ai giudizi del pubblico.
Forse la cosa più difficile da fare è proprio riuscire a definire Achille Lauro. Chi è? Cosa fa? Cantante, trapper, rocker, performer… tutto quanto sembra cadere sotto la convinzione che Lauro non ha mai fatto due volte la stessa cosa.
Ora che il tour di 1969 è partito, Achille sembra voler far piazza pulita di tutto quello che è stato detto e scritto su di lui. L’anno scorso ci aveva fatto credere di aver trovato la quadra definitiva con Pour l’Amour, a metà strada tra elettronica, samba trap, musica latino-americana e chissà che altro. Sembrava la fine del percorso attraverso hip hop e rap che aveva iniziato con Achille Idol Immortale e soprattutto Ragazzi Madre del 2016.
Achille Lauro: Come è possibile che catalogavano Pour l’amour come trap, quando c’era tanta elettronica, musica latina, samba? C’era anche la trap, ma definirmi trap è riduttivo: abbiamo fatto la trap nel 2014 quando in Italia nessuno sapeva cosa fosse. Siamo sempre arrivati un pochino prima: quando c’era in Italia lo street rap, quasi gangsta, io quando facevo canzoni rap erano quasi preghiere; so cosa vuol dire stare sulla strada e non avere un cazzo, per questo spero mi cambi la vita. Poi saturata anche quello mi sono vestito da donna, con gli occhiali rosa, affrontando quelle tematiche in maniera diversa. Poi abbiamo aggiunto gli elementi samba, salsa e sudamericana, ci siamo spostati ancora. Non vogliamo far quello che fanno tutti.
E chi se lo sarebbe mai immaginato Achille Lauro con le chitarre in mano a fare rock sul palco di Sanremo? E un brano, Rolls Royce, destinato a diventare un classico dei nostri giorni.
Achille Lauro: Mi aspettavo che Rolls Royce avrebbe fatto qualcosa, capivamo che era diversa da quello che c’era. Quando è uscito Pour l’amour a giugno 2018 avevamo già la canzone ma avevamo scelto di non farla uscire perché era un genere a sé e non c’entrava con l’elettronica e samba-trap del disco. Aspettavo la vetrina giusta. Quando ho sentito nei corridoi la possibilità di andare a Sanremo ho avuto l’intuizione: era un brano di rottura, strano per Sanremo ma adatto, punk, rock, pop, aveva tutto dentro. Non mi aspettavo di risvegliare un certo pubblico che non ha punti di riferimento, sopra i 30 anni, cresciuto con la vera musica, quella che ha cambiato la storia.
Il talento di Lauro è di essere riuscito a sintetizzare due stili con grande efficacia: Rolls Royce vince grazie non soltanto al sound – siamo in epoca di recupero retromaniaco anche del classic rock d’altronde – ma proprio all’immaginario che crea. Quello di un passato glorioso dove “anche la musica era migliore”, e tutta quella lunga serie di miti, caduti o meno.
Achille Lauro: Io ho sempre detto che volevo diventare come gli Oasis, non come Eminem. Rolls Royce è il battesimo delle rockstar. È immaginarsi di essere battezzati dall’Olimpo della musica, che è quello che puntiamo noi. Cerchiamo di fare una roba leggendaria, che rimanga, che tra vent’anni la senti ancora. Niente che c’entra col singolo dell’estate, sul piano marketing, costruito a tavolino.