– di Assunta Urbano –
Il progetto che porta il nome Portobello nasce da un’idea da solista di Damiano Morlupi, per divenire successivamente un collettivo, con l’aggiunta delle menti di Luca Laudi, Alfredo De Angelis, Stefano Donato, Matteo Agozzino e Eugenio Bonifazi.
Nel 2017 viene pubblicato l’EP 1980, dai sapori un po’ nostalgici dei tempi andati. Occasione fondamentale nella carriera del cantautore, in quanto gli permette di cimentarsi per la prima volta in uno studio.
Per luovo di ICompany esce il 10 maggio 2019 il disco d’esordio Buona Fortuna, costituito da nove brani. Ne ho approfittato per farmelo raccontare direttamente da Damiano Morlupi, l’anima della band.
Il 10 maggio è uscito il vostro album d’esordio Buona Fortuna. Suona quasi come un augurio che fate ai vostri ascoltatori. Cosa rappresenta per te questo disco? Raccontatemi come è nato questo titolo, non essendoci, tra l’altro, nessuna traccia omonima all’interno.
Il titolo del disco viene dall’utilizzo della parola stessa che c’è in Giappone. Io pratico Buddismo da otto anni, sono membro della Soka Gakkai italiana. Il discorso, quindi, è legato alla filosofia orientale. Il “Buona Fortuna” è un po’ in tutto l’Oriente tra tutti una cosa quotidiana, a differenza nostra che ne facciamo uso solo per le persone a cui teniamo. Lì c’è un concetto diverso di empatia tra le persone. Quindi, è legato a questo e alla bellezza del gesto. Poi, è dedicato a noi stessi, perché la speranza era quella di riuscire ad ottenere dei risultati e sta accadendo. Allo stesso tempo è un augurio anche a chi ascolta il disco.
È un concetto molto bello. Noi non siamo abituati ad augurare “Buona Fortuna” anche agli sconosciuti.
No, infatti. Sicuramente il sistema capitalistico ci ha un po’ plagiato. Forse quando c’era una cultura più rurale e contadina c’era un modo di socializzare diverso.
Verissimo.
Ti cito due frasi tratte dal brano Cruciverba: “L’estate qui in provincia mi fa star male” e “La gente cosa direbbe?”. Facendo riferimento a queste, cosa si prova, secondo te, a fare musica partendo dalla provincia?
È indubbiamente tutto più difficile. Vivere in una grande città dà la possibilità di frequentare un certo tipo di circuiti ed inevitabilmente diventare intimo con qualcuno inserito in quella situazione lì. Poi ovviamente scatta l’amicizia, la simpatia, perché fondamentalmente in Italia la musica – e credo in tutti i settori dello showbiz – non è scevra da conoscenze, raccomandazioni. Secondo me, anche all’estero è così. Ho notato che nelle grandi città è sempre tutto un po’ più facilitato rispetto a chi come noi deve farsi 90 km, mettere la benzina, pagare i caselli. Non possiamo essere presenti nel circuito come magari potrebbe essere qualcuno che vive in una zona più accessibile, tipo San Lorenzo. Questo non vuole essere un alibi. Ci sono tante realtà di provincia, te ne cito una: Fast Animals And Slow Kids.
Noi veniamo dalla provincia e nelle grandi città spesso accade di essere visti un po’ come quelli lì che sembra arrivino in groppa ad un somaro [ride ndr]. Questo c’è, come c’è anche il fatto che è tutto un po’ più difficile, però basta lottare il doppio degli altri.
Anche l’esempio dei Fast Animals And Slow Kids dimostra che forse qualcosa sta cambiando.
Sì, ma poi fondamentalmente dalla provincia sono sempre uscite delle band. Anche negli anni Novanta, quando c’era tutto il giro della musica indipendente dell’epoca, tanti venivano dalla provincia. Lo stesso tra i big, Vasco Rossi e Ligabue vengono da paesini. Se uno ha la stoffa ed ha voglia di provarci, riesce. In qualche modo arrivi, ma con le canzoni. Calcutta, ad esempio, è di Latina. È più grande, ma è comunque una provincia.
Certo. Restiamo sempre in questo panorama musicale italiano, che è stato da sempre storicamente costellato, in maggior parte, da cantautori solisti. Cosa significa oggi per i Portobello essere una band nel nostro Paese?
Il nostro progetto è un po’ particolare, perché nasce da me solista. Portobello ero io anni fa ed in seguito è diventata una band, semplicemente perché mi trovavo bene con i ragazzi che mi accompagnavano dal vivo. La mia idea era quella di fare una band fin dall’inizio e per fortuna poi ho incontrato loro, quando era già stato completato il primo EP. Ci siamo trovati bene e abbiamo continuato. È un po’ un progetto che nasce da cantautore e dopo diventa band, mantenendo quell’anima lì, perché i testi continuo a scriverli io e poi ci lavoriamo insieme. Si è preferito di comune accordo che continuassi io a scrivere, anche se qualche volta capita che si scrivano cose a quattro mani.
Essere una band in Italia non è facile. Non c’è la cultura delle band e storicamente non c’è mai stata. Al massimo ci sono stati cantautori oppure semplicemente cantanti che sono più interpreti, dato che cantano pezzi scritti da altri. Ci sono anche gli hitmaker, che tirano fuori queste hit estive e poi scompaiono per tutto l’inverno.
Essere una band è difficile. Noi siamo sei e spesso creano problemi dicendo che siamo tanti. In realtà, noi non abbiamo basi, prendiamo gli strumenti e suoniamo. Siamo musicisti che amano suonare ed ognuno ama il proprio strumento. Noi la viviamo come una figata la possibilità di suonare, stare insieme e divertirci. Tanti, dal punto di vista logistico, quando sentono che siamo in sei si spaventano. Noi la viviamo bene. Il problema è che magari, a livello tecnico, girare per noi non è facile. È un preconcetto, perché forse siamo più “facili” noi, rispetto ad altri che hanno tutte le basi sul computer.
Poi c’è anche il discorso da parte dei produttori. Dato che tanti ultimamente sono usciti fuori tutti come cantautori, c’è una tendenza a buttare l’occhio lì. Anche se la nostra musica non è molto lontana da questa roba qui. Noi siamo un gruppo, ma il solista cantautore si accompagna comunque coi musicisti.
Esatto, perché anche i solisti hanno una band alle spalle.
Brava. Il discorso è pure un altro. In Italia tutto è regolato da etichette e preconcetti ed è tutto più difficile. Se ci rendiamo conto che non è così, cambia tutto come è successo nel 2016 con l’avvento dell’indie. Chi l’avrebbe detto mai? C’è stata una rivoluzione in un attimo.
Come hai visto questo fenomeno indie che è esploso tre anni fa?
Io sono stato inizialmente molto contento. Nei primi due anni ho visto tanti artisti nuovi e fa piacere una cosa del genere. In Italia c’è stata finalmente la possibilità di far sentire qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui era abituata tutta la popolazione. Il problema è che ora si è tutto un po’ omologato. Adesso sembra tutto improntato verso il guadagno.
Quando abbiamo scritto l’album eravamo un po’ anche influenzati da quello che girava, inevitabilmente, però ad un certo punto uno deve anche fare qualcosa di diverso.
Esattamente.
Torniamo a parlare di Buona Fortuna. Buonanotte è il brano che chiude il disco. In particolare, si tratta di un tributo a Lucio Dalla. Perché è proprio lui il vostro soggetto di riferimento e per quale motivo vi mette tutti d’accordo sul piano musicale?
Allora, non è propriamente un tributo, poter dire di fare un tributo a Lucio Dalla sarebbe un onore, dato che è uno dei miei miti della musica italiana, insieme a Lucio Battisti. Infatti, Cruciverba ha un po’ quell’aria anni Settanta. Ho cercato piuttosto di rendere omaggio a tutti e due.
Buonanotte è un pezzo che io volevo scrivere da sempre, con quelle atmosfere lì. Sicuramente ci siamo ispirati a Dalla, anche se mi prostro quando parlo di lui, che è abbastanza irraggiungibile. Dalla ha scritto La Sera Dei Miracoli, un testo pazzesco. Buonanotte ha senza dubbio un testo più semplice. È stata scritta in una notte in cui ero abbastanza felice della mia vita. Mi è venuto in mente questo giro e ci ho scritto un testo sopra. L’ispirazione sta soprattutto nelle melodie, con la parte finale che accelera. Una cosa tipica di Lucio Dalla, proveniente dal mondo jazz. Quella cosa lì ho cercato di farla a modo mio, senza copiare. Ecco, questo potrebbe essere il piccolo omaggio che gli ho fatto. Dalla è un mostro sacro, non mi azzarderei nemmeno a nominarlo.
Parliamo anche di Piano B. Come si fa oggigiorno ad avere il coraggio di puntare sul proprio “piano A” e non ricadere sul piano B, soprattutto in ambito artistico?
Semplicemente uno deve capire cosa vuole fare nella vita. È normale che, nella società in cui viviamo, tu debba produrre un minimo per guadagnare. Devi adattarti un minimo, perché il lavoro serve per tirare avanti. Se uno vuole fare il dentista, fa il percorso universitario, investe su se stesso e poi apre lo studio. Non capisco perché un musicista, un attore o un artista in generale debba avere un “Piano B”. Io che faccio il musicista so che sto investendo su qualcosa. Come si fa? Con tanto coraggio e un po’ di sana follia.
Proprio in Italia poi, un Paese in cui la cultura dovrebbe essere messa al primo posto.
Certo. Il problema è che in Italia la cultura è stata parte determinante in alcuni periodi storici. L’ultimo periodo di Avanguardie è stato forse il decennio degli anni Settanta, dopo l’arte è stata sempre bistrattata.
Non è giusto, però bisogna avere il coraggio di buttarsi. Se ci credi ed hai stoffa, arrivi.
Il problema della cultura in Italia è che al momento non esiste proprio la concezione della cultura stessa. Stiamo vivendo un periodo brutto a 360 gradi. La cultura si è proprio dimenticata, anche a causa della scuola.
Sono d’accordo. Ci salutiamo con un’ultima domanda. In Un Attimo e Basta sembra che al vostro ascoltatore parliate direttamente, chiedendogli: “Dimmi quand’è stata l’ultima volta che sei stato felice per niente”. Mi sembra scontato rigirarti la domanda in conclusione di questa intervista: tu, invece, quand’è l’ultima volta che sei stato felici, ma “per davvero”?
Eh, bella domanda! La felicità, secondo me, è qualcosa di abbastanza effimero per come è intesa in Occidente. Noi siamo felici quando ci arriva un pacco da Amazon o cose così. La felicità vera interiore è un percorso più difficile, è quando tu stai bene con te stesso. Non sempre ci si arriva e non tutti ci arrivano. Quando sono stato felice l’ultima volta? Fondamentalmente anche pochi giorni fa. Poi sarò banale e scontato, però quando sono tranquillo, in pace con me stesso e so che sto facendo quello che mi piace, sento che per me basta. Ecco, in quei momenti sono felice.
In Un Attimo E Basta mi rivolgo sì all’ascoltatore, ma anche a me. Oggettivamente siamo in un periodo storico in cui ci perdiamo un po’ dietro alle stronzate e non viviamo bene la quotidianità. Sono tutti discorsi che potrebbero apparire scontati, eppure in realtà non è così, per niente. Si tratta di domande esistenziali semplici, ma a cui non è facile rispondere.
Alla felicità, quella totale, non so se ci arriverò mai, però ci sono i momenti, la assaporo eccome.