• di Riccardo De Stefano
Foto di Danilo D’Auria
I Canova sono un po’ una eccezione: vengono da Milano, fanno pop, sono una band e c’erano da prima che tutto diventasse costruito e forzato. Complici del successo di Maciste Dischi in questi anni, sono riusciti a proporre un sound personale e riconoscibile capace di parlare al pubblico più giovane e attento, ma anche a una larga fascia di utenza over, grazie a una presenza sul palco sempre vincente e a una attitudine “rock” che solo chi ha fatto tanta gavetta è stato capace di sviluppare. Li abbiamo incontrati per parlarci del loro “Vivi per sempre”, secondo album che conferma il talento della band in fase di scrittura e osservazione della realtà di oggi.
Vivi per sempre è il secondo disco ma è un percorso continuativo rispetto al primo, come se fosse più un “capitolo due”?
Sì, assolutamente, perché siamo una band, e il nostro sound è quello, non avremo mai un disco senza la batteria e senza il basso. È una prosecuzione di dove eravamo rimasti, è ovvio che c’è una evoluzione però la senti che la matrice bene o male è quella lì.
Anche visivamente mi sembra che il prodotto sia simile.
Abbiamo scelto di lasciare questi tag perché abbiamo pensato che questa cosa qua potrebbe dare una “datazione”, nel senso che fra 15 anni questi tag saranno riconducibili a un certo periodo storico.
Non è un limite?
Non è un limite perché è una piccola parte di tutto il discorso e se vuoi anche una presa in giro nei confronti di un social che ha schiavizzato tutti.
I social sono una farsa, raccontando un mondo artificiale… Credete che l’ostentazione degli artisti sia bene o una presa per il culo ai ragazzini?
Crediamo che penalizzi abbastanza chi come noi voglia fare musica e non diventare dei mirini per chissà che aspirazioni. Nel periodo della scrittura delle canzoni siamo spariti, perché scrivendo quelle cose lì distraggono. La gente dovrebbe seguirci per quello che facciamo, per le canzoni che facciamo e non per quello che facciamo al di fuori di quello. Sarebbe bello se fosse così, siamo in un periodo in cui molto probabilmente conta di più farti vedere che mangi un panino piuttosto che dire che abbiamo scritto una canzone nuova.
Quel circuito nato come indie “per necessità”, quando le etichette piccole erano le uniche per un certo tipo di contenuto, è esploso: cosa pensate che sia cambiato, ora che il sogno comincia a diventare realtà?
Il momento più bello è la fase in cui nei concerti passi da 50 persone a 200, poi 300, 500: lì ti accorgi che sta andando bene, ma noi prima di quella fase abbiamo fatto 5-6 anni dove ovviamente andava tutto malissimo: facevamo le stesse cose, scrivevamo canzoni e facevamo concerti, non avevamo pubblicato dischi, ma eravamo seri in quello che facevamo, adesso abbiamo la fortuna e la libertà di svegliarci la mattina e pensare alla band. Da un certo punto di vista è anche una responsabilità.
In che senso?
Te la devi guadagnare ogni giorno. Per questo non ci siamo seduti sul divano ma siamo ripartiti da zero, come se fosse il nostro primo disco. Abbiamo rischiato ancora così come abbiamo rischiato con il primo disco che era una roba registrata in 6 giorni e pensavamo di aver fatto per noi, poi è andata bene e allo stesso modo abbiamo detto: “non seguiamo nessun filone anche musicale”. Se vedi siamo anche tornati indietro: è un disco che è molto più suonato del primo, ed è una scelta, ci sentiamo davvero liberi e indipendenti da quello che ci circonda. Siamo solo dipendenti da noi stessi, la struttura si è allargata, Maciste è diventata una realtà importante ma questo solo per farci fare meglio le nostre cose quindi lo vediamo come un guadagno, un valore in più.
Il vostro è un pop rock, senza vergogna di farlo. C’è stato un periodo storico in cui pop era diventata una parolaccia, poi si è imposto come il linguaggio della malinconia. Come lo avete raccontato?
Il mainstream italiano ha un po’ sporcato il valore della parola pop, noi non so che genere facciamo, abbiamo un range abbastanza ampio di scelte. l pop di permette di fare qualsiasi cosa, è il genere più libero forse, con il pop possiamo dare tante sfumature alle nostre canzoni. Noi abbiamo sempre fatto questo pop, eravamo una delle tante band di Milano, visti malissimo perché facevamo questa roba qui. I locali erano pieni di cover band, cantavano tutti in inglese e noi eravamo gli unici e siamo rimasti a galla noi a Milano. C’è stata un’esigenza di tornare, sia da parte del pubblico sia di chi scrive i brani, a un discorso più veritiero. I talent show hanno favorito la rinascita della musica italiana: tutta questa nuova generazione è la reazione a quel tipo di musica, uscita e venduta in quel modo e proposta in quel modo lì e la gente si è rotta i coglioni. Le persone si sono sentite assolutamente connesse a questo tipo di linguaggio, al di là del synth o della chitarra. È abbastanza generazionale come discorso, adesso ci sono delle situazioni che la gente ha premiato e la fascia 18-30 è abbastanza dentro questo genere di roba, c’è anche tanta scelta, il bello è che la musica non è una sola cosa, all’estero esistevano l’indie- rock, l’indie-pop, in Italia era molto limitante la cosa, invece adesso puoi ascoltare un sacco di cose, il rap, la trap, il graffiti pop, si è creato un discorso, una serie di ingredienti che ha dato vita a questa situazione.
Nel discorso di album e singolo, siamo tornati all’epoca in in cui il singolo pare l’unica che abbia peso. Mi pare abbiate insistito nel formato album, esistono i Canova senza album?
Non lo sappiamo, ragioniamo a epoche. Nell’ultimo anno siamo questi, tra due anni chissà. Siamo fan dell’oggetto, dell’ Lp: ci tenevamo che il disco uscisse in 33 giri, nonostante non sia un concept album è stato difficile tirare fuori il singolone. abbiamo puntato al lavoro complessivo: ci piace che sia un disco non skippabile. Tutte le canzoni sono singoli, è una raccolta di brani che creano un discorso.
E quale discorso ne viene fuori?
Il collegamento è la vita – una vita da cani – che passa diverse fasi, il giorno in cui sei malinconico scrivi Shakesperare, Domenicamara è il pezzo in cui fa schifo tutto, sei innamorato e scrivi Groupie, quando torni da Londra e sei di malumore Goodbye goodbye. Sono momenti che ricordiamo benissimo, ma che vengono assimilati in un discorso unico. La lettura delle canzoni è soggettiva, per esempio in Ramen c’è una voce finale che continua a dire “Chissà se ti ricordi di me”, una ragazza mi ha detto che le fa pensare a suo nonno, ognuno ne trae un proprio senso.
Groupie è figlia di un tour, quanto ha influenzato il successo del primo album in questo vostro percorso?
Se non avessimo vissuto certe cose ci sarebbe un’attitudine diversa. Groupie è un po’ il ponte tra questi due dischi: a noi succede di arrivare a ridosso del tour che arriva una canzone in coda, poi la proviamo immediatamente prima del live, e quello è stato il caso di Groupie. Il tour è stato molto totalizzante, il 2017 e 2018 non sono mai esistititi: eravamo sempre e solo in tour, quando non eravamo in tour stavamo tornando da un tour R
Quanto è alienante e quanto appagante?
50 e 50, il 50% che toglie ti fa distaccare dalla realtà che riacquisisci quando torni a casa, quando fai qualcosa di banale come prepararti da mangiare, l’altro 50% superpositivo ti permette di scrivere le canzoni e migliorarti. Per noi che siamo anche amici oltre che colleghi è un sogno, tutti gli stereotipi sono veri, siamo tornati con i capelli bianchi.
In questa fase sonora, sembra che ci sia un ritorno alle chitarre, è una serie di corsi e ricorsi storici?
Quando i Beatles si proposero dissero che le chitarre erano morte… noi abbiamo sempre suonato con le chitarre perché non siamo dei dj, le suoneremmo lo stesso se fossero vietate o bandite, senza le chitarre stai mettendo via tutto il tuo passato i tuoi trascorsi, fa parte del nostro DNA.
Quando non andava il pop in italiano avete fatto il pop italiano quando non andavano le chitarre avete fatto le chitarre, in un certo senso l’avete vinta voi…
Alla fine vincono le canzoni, che ci siano le chitarre o il charlettino trap, al di là degli arrangiamenti che sono un contorno, Rolls Royce di Achille Lauro per esempio è una di quella canzoni che fa solitamente una band rock, invece l’ha fatta un trapper. Quando è uscito lui non avevamo aspettative, invece ha rotto il culo, nonostante le polemiche.
Cosa vi aspettate voi allora?
Noi faremo il nostro, non ci faremo molto influenzare, la nostra aspettativa è quella di continuare a svolgere questo tipo di attività in modo indipendente, senza nessuna deviazione: è difficile perché ormai siamo inseriti in un discorso quasi mainstream, quindi devi essere tu molto responsabile e poi hai le strutture che ti aiutano, sennò basta una IG stories per sputtanarti un disco e tutta la tua credibilità.
Una diciottenne mette Vivi per sempre su Spotify: con quale stato d’animo deve affrontare la prima traccia per poi arrivare al’ultima?
Gli stati d’animo in questo disco sono molteplici, non chiude in maniera molto gioiosa. Però si chiama Vivi per sempre, un augurio rivolto a chiunque, chi ascolta il disco deve sentirsi esortato, potrebbe riferirsi a se stesso o anche a noi e alle nostre canzoni. Qualcosa ti lascia, come è stato per la musica che abbiamo ascoltato noi, deve smuoverti dentro, noi non sappiamo una diciottenne cosa possa provare perché non abbiamo più quella vita, l’approccio è libero, libertà totale, ti fai un’esperienza che dura mezzora e poi ci pensi su e te lo porti al live.
Se Sfera Ebbasta dice “ricchi per sempre” voi rispondete “vivi per sempre”.
Non bazzichiamo molto quel mondo lì e quando è uscito il disco !ah abbiamo fatto Sfera Ebbasta!, vivi per sempre è un concetto più profondo dell’altro.
Come diceva Freddie Mercury “chi è che vuole vivere per sempre”?
Sicuramente noi auguriamo una vita eterna alle cose che ci piacciono e ci fanno stare bene, è per questo che il titolo dà molto spazio a tante interpretazioni ed è come Avete ragione tutti, un messaggio ampio che interpreti a tuo modo.