– di Ilaria Pantusa.
foto Giuseppe Maffia/Rock in Roma –
Il colpo d’occhio, appena entrati nell’ippodromo delle Capannelle, che da anni ospita lo storico Rock in Roma, è di quelli che restano impressi nella memoria. Il crepuscolo che diventa sera, la musica dei Dengue Dengue Dengue a scaldare un’atmosfera già rovente, come prima di loro avevano fatto, tra gli altri, MC Bin Laden e Tiger&Woods, ma soprattutto il pubblico, multiforme, variegato, talmente massiccio da far sembrare Capannelle un posto tutto sommato piccolino. I numeri del giorno dopo parlano di oltre 25.000 persone, provenienti un po’ da tutta Italia, di tutti i generi e colori e soprattutto di ogni età, compresi papà con bimbi aggrappati alle spalle.
In molti, retoricamente, tradendo un certo snobismo o lasciandosi andare ad un manifesto disprezzo, si chiedono cosa spinga tante persone ad andare ad un concerto di Liberato. Le ragioni sono indubbiamente molte e di certo l’unica spiegazione non può risiedere solo nell’hype che il progetto partenopeo ha saputo cucirsi addosso.
L’esistenza (e resistenza) di Liberato è un fatto che deve portare a domande e riflessioni un po’ più strutturate, se tutte queste persone il 22 giugno erano lì a godersi quello che è stato a tutti gli effetti un vero e proprio spettacolo.
In primo luogo uno spettacolo visuale. I giganteschi led wall hanno compensato l’assenza di un volto da riconoscere e idolatrare, offrendo uno show mai banale e sempre in linea con la traccia emozionale scavata dai brani in scaletta. Colori fluo, bianchi e neri, un cielo stellato, la luna e le nubi a ricoprirla, il tutto per un continuo e riuscito tentativo di sorprendere gli occhi.
A questo va aggiunto il contrasto col minimalismo del set strumentale e la disposizione sul palco dei tre musicisti. La voce e le tastiere al centro, ai lati percussioni, chitarre e altri strumenti.
Suggestivo, in particolare, il wall centrale, che durante tutta la durata del live è salito e sceso a coprire e scoprire i tre musicisti, come ad ingabbiarli e liberarli in un’eterna alternanza particolarmente significativa all’interno del progetto Liberato.
Infine lo spettacolo musicale, che va di pari passo con quello umano, luci e ombre comprese. Da elogiare ci sono la pulizia del suono, la precisione nelle esecuzioni, la libertà di giocare con i riferimenti musicali e con il repertorio stesso di Liberato, mescolando brani iconici come Stand by me al reggaeton partenopeo di Oi Marì, roba da matti, se ci si ferma un attimo a riflettere, eppure una roba da matti veramente ben confezionata, insieme alla pazzesca tammurriata che fa da intro a Nunn’a voglio ‘ncuntrà. E a proposito di intro una nota di merito va a quello di Nove Maggio, che diventa quasi una composizione orchestrale, di certo il momento emotivamente più potente, insieme alla precedente Niente, vera chicca del Capri rendez vous firmato Lettieri. La chiusura non poteva che essere affidata a Tu t’e scurdat’ ‘e me, che Liberato ha lasciato cantare a tratti alle 25.000 voci che gli hanno fatto compagnia in questa notte romana.
Uno spettacolo musicale che si è legato a quello umano del progetto Liberato, con i suoi pregi e difetti, fra cui la poca resistenza vocale che, se venisse indagata, potrebbe essere un indizio sul mistero dell’identità di Liberato; ma anche a quello umano del pubblico, sempre diviso fra difetti – l’attaccamento quasi morboso ai cellulari tanto da rendere necessari gli inviti, da parte di Liberato, a ballare piuttosto che a fare video – e i pregi: l’intensa, vitale ed esplosiva voglia di divertirsi, di giocare, di non prendersi sul serio, di dimenticarsi di sé e di ballare e ballare ancora, almeno per una sera, in una Roma liberata.
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