– di Angelo Andrea Vegliante –
La prima volta che ebbi l’occasione di parlare con Gabriel Wegner fu tre anni fa. All’epoca, per un corso universitario, stavo studiando il Genocidio Armeno. Un argomento piuttosto complesso, che nella storia canonica insegnata nelle scuole è spesso dimenticato. L’argomento, tuttavia, ha cominciato a emergere sia in Europa (la Germania ha riconosciuto quanto avvenuto nei primi anni del Novecento) sia l’Italia, ma solo recentemente (nell’aprile 2019 “L’Aula della Camera – scrive il Corriere – ha approvato la mozione bipartisan che impegna il governo a «riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale»”).
Cosa c’entra il Genocidio Armeno con la musica? Gabriel Wegner è un cantautore che ha dedicato buona parte della sua carriera discografica a sensibilizzare l’opinione pubblica in merito a questa fase storica. E lo ha fatto sempre portando in versi la figura di suo nonno, Armin T. Wegner, testimone dei fatti narrati. Recentemente, Gabriel ha pubblicato un nuovo singolo sul tema, “Poet in dead town”. Così lo abbiamo contattato per parlare del Genocidio Armeno.
Partiamo subito dal nuovo singolo, “Poet in dead town”, nel quale torni a parlare di tuo nonno, Armin T. Wegner, testimone del Genocidio Armeno, dopo l’album realizzato con i Creative Crimes, “Armin T. Wegner – 1916”. L’ultima volta che ci parlammo in merito fu il 2016, quindi la domanda è d’obbligo: cos’hai cambiato nel racconto della vita di tuo nonno in musica, se c’è qualche evoluzione?
Di base no, il percorso evolutivo del cd è rimasto lo stesso, così come il suo intento: ripercorrere in modo evocativo il percorso che mio nonno fece lungo il deserto del Der-Es-Zor nel 1916, a cosa assistette e sentì con i suoi occhi e con la mente prendendo spunto dai suoi numerosi scritti. Unico passo evolutivo del cd, in senso di ampiezza da quando ci siamo visti l’ultima volta, la si riscontra con l ‘ingresso nella lista di un nuovo brano, “Aleppo”, che, riallacciandosi al genocidio armeno ma distaccandosi dal periodo storico, parla prettamente della guerra in Siria attuale e della distruzione sistematica che sta subendo la città di Aleppo di fronte agli occhi di un mondo che ne parla ancora troppo poco.
Non sono in molti ad occuparsi della questione armena, sia a livello internazionale che nazionale, sia in una dimensione politica sia in quella artistica. Qualche tempo fa la Germania riconobbe l’esistenza del genocidio, tuttavia la Turchia ancora non ha rilasciato proclami ufficiali. Silenzio, inoltre, anche da parte del mondo artistico italiano, quando in realtà la musica dovrebbe essere un motore di sensibilizzazione sociale importante. Come mai questa cosa avviene in maniera sporadica o marginale?
Davvero una bella domanda. Dipende da che punto di vista la si affronti. In realtà, da un punto di vista artistico, è stato fatto tanto negli ultimi anni, basti pensare a “Il grande male”, lo spettacolo proposto dal regista Sarghis Galstyan in occasione del centenario, o al lavoro di ricordo dei System of a Down, Diamanda Galàs nel lavoro Defixiones will and testament, il grande Chris Cornell che nel 2017 nella sua ultima canzone pubblicata tratta l’argomento con “The promise”. O il concerto organizzato all’arena di Verona, il quale purtroppo non ha visto la luce. Questi sono solo alcuni. Certo, si parla sempre di lavori riconducibili il più delle volte prettamente alla società armena o al mondo medio orientale. Questo può essere spiegato dal fatto che il genocidio armeno non ha mai avuto la risonanza della Shoa: in primis perché non è stato ancora ufficialmente riconosciuto in tutto il mondo, specie da chi lo ha perpetrato; secondo perché soprattutto in Europa è sempre stato visto, come scrisse mio nonno più volte, “così lontano”, fuori da casa nostra rispetto al genocidio degli ebrei. Il fatto è che non si tratta di una gara allo share, ma in entrambi i casi, come in altri, di deportazioni di massa di carne, ossa, vite, esperienze e tradizioni. Non esiste un valore riconoscibile più ad uno che all’altro, nessun termine di paragone, in merito a tutto ciò che noi razza umana abbiamo patito in termini di totalitarismi, dittature, soprusi, etc.. Va ricordato indiscriminatamente, cosi come vanno ricordate le persone che hanno fatto qualcosa per far sì che non scendessimo completamente nell’oblio della nostra capacità ,spesso come razza di fare del male insensatamente. O c’è il rischio che tutto ciò un giorno possa riaccadere. Ecco perché ricordare è importante, fondamentale!
La musica in campo per la storia e il sociale. Oggi queste funzionalità potrebbero essere più mainstream oppure siamo di fronte a un’epoca di prodotti invece che di opere?
Non credo che il valore di un’opera sia riconducibile al suo potere visivo o di diffusione, siamo noi che ascoltiamo, che guardiamo e sentiamo, ad attribuire ad un’opera in se il suo valore attraverso il nostro modo di interpretarla, certo è che se in passato artisti di ogni estro, razza, o religione hanno dato la vita in virtù del bello, dell’armonia estetica di un opera, di ciò che può essere definito di qualità, spetta a noi adesso far si che quei valori estetici e quella qualità venga mantenuta, promulgata come tale e perpetrata alle generazioni future. Oggi però si tende a confondere la qualità con la visibilità di un opera, e non funziona affatto così, non vuol dire che perché un prodotto ha milioni di visualizzazioni o una canzone viene trasmessa allo sfinimento alla radio allora sia un prodotto sicuramente di qualità e si possa definire un opera d’arte, tutt’altro. Oggi è il mercato, l’economia e la televisione a dettare la visibilità di un prodotto, è tutto studiato a tavolino, prodotti che vengono preconfezionati e lanciati in pasto a grande pubblico, tendo a credere che la maggior parte della produzione che viene proposta oggi come standard qualitativo non verrà ricordata in un prossimo futuro come noi ricordiamo e valutiamo oggi un Caravaggio, una canzone dei Beatles, un opera di Chopin, e così via, non credo proprio. Il mercato detta leggi e regole, e sembra proprio che oggi come oggi questo mercato ci voglia il più uniformati possibile, incapaci di riconoscere il bello e la qualità in ciò che vediamo, forse perché se la mediocrità viene accettata come qualità, tutto il settore di mercato può permettersi di abbassare i costi di produzione? non lo so, le mie sono solo congetture ma e impossibile non riconoscere questa tendenza al brutto, allo squallore, alla mediocrità e carenza di contenuti di spessore, e alla volontà di trasformare questi parametri in qualcosa di positivo per vendere, soprattutto in campo musicale, che vediamo oggi.
In linea generale, secondo te, che ruolo dovrebbe avere la musica?
Intrattenere, divertire, ricordare, unire, dividere, sensibilizzare, evocare, ridicolizzare, denunciare. Sono molteplici i ruoli che la musica può avere, ed è questo aspetto poliedrico a renderla tanto potente e speciale. Non ne esiste uno in particolare, siamo noi a dare un ruolo alle cose e a decidere attraverso quali valori.
Visto che parliamo di musica, devi sapere che ultimamente mi è stato detto che la stessa “era meglio prima”. Tu che ne pensi?
Personalmente la vedo allo stesso modo. Come ho risposto prima, per quanto riguarda me almeno, oggi ho l’impressione che specie in Italia vi sia un volontà di un mercato sempre più monopolizzato, deciso a mettere in luce la mediocrità, invece che il valore artistico in sé delle opere musicali. “Sa per la musica che per i testi”.
Tornando al brano in sé, il sound ha l’energia di un racconto, di una storia da tramandare. Ha tonalità particolarmente di nicchia, non ‘abituate’ al grande pubblico. Quali pensi saranno i riscontri di chi ascolterà il brano?
È ovvio che, parlando di un tema molto particolare e sensibile, c’è il tentativo di mantenere un rispetto enorme nei confronti dell’argomento trattato, e quindi una ricerca particolare nel metodo della costruzione di tali brani. Questo potrebbe risultare ostico all’ascolto di molti, forse ironicamente dare l’impressione di qualcuno che si sta prendendo troppo sul serio. Ma con argomenti così delicati non potevano esserci altre strade, almeno per me. Non nego che non mi dispiacerebbe affatto pero che chi ascolta venga colpito, in primo luogo, dalla musica in sé, per poi approfondire, qualora volesse, nella ricerca dell’argomento trattato. D’altronde, se l’ascolto di questi brani trasmettesse interesse, allora avrebbe raggiunto sicuramente il suo scopo primario.
Rispetto alla nostra chiacchierata di tre anni fa, ti sei cambiato in quale aspetto stilistico?
Non saprei proprio stilisticamente come definirmi, lo dico sinceramente. Lascio che siano gli altri a decidere se posso permettermi il merito di avere uno stile. Tuttavia ho sempre evitato di sentirmi risicato all’interno di un determinato stile, o etichetta. Forse perché amo poter pensare di essere libero di approcciare a ciò che faccio come meglio credo, e quindi mutando in continuazione a seconda di come mi sento. Ecco perché i lavori che faccio spesso non si assomigliano minimamente, ed e difficile trovare un senso continuativo nella mia discografia. Ammetto che è tutto molto impulsivo, e questo può rendere difficile inquadrarmi da questo punto di vista.
Domanda che non ho mai fatto a nessuno, ma che mi è venuta in mente pensandoti: cosa ti aspetti dalla musica italiana?
Avrei preferito non essere stato io il primo a riceverla [ride]. Il fatto è che, per me almeno, c’è davvero poco di che essere positivi. Credo che attualmente, più che in ogni altro paese al mondo, la musica in Italia sia diventata un business totalmente controllato, guidato e manipolato da un settore che, con la musica, non dovrebbe avere assolutamente nulla a che fare, non così almeno: la televisione. La televisione è puro intrattenimento, la musica e tutta un’altra cosa. Eppure oggi, grazie all’avvento dei talent show e di personaggi come la De Filippi & company, la musica che ascoltiamo e che esce fuori in Italia è totalmente monopolizzata dal mercato televisivo. E di peggio non poteva davvero succedere, perché così facendo si perde la libertà, la genuinità, e il lato sovversivo che la musica più di ogni altra arte dovrebbe mantenere e rappresentare. È come prendere una creatura alata bellissima e metterla in una gabbia dorata. Se chi legge in questo momento sta pensando “Da programmi come Amici, X-Factor e via discorrendo escono e sono usciti artisti bravissimi”, tralascia una cosa fondamentale: non basta avere una bella voce e un bel viso per essere un artista che resiste al tempo, per fare musica che resista intere generazioni. Immaginatevi se un John Lennon o un De Andrè nascessero oggi in un contesto come quello attuale, e l’unico modo per loro di mettersi in luce sarebbe iscriversi e partecipare ad uno dei suddetti talent. Molto probabilmente uscirebbero volontariamente dopo qualche giorno, perché la maggior parte degli artisti che hanno lasciato un segno avrebbero sofferto tale competizione, e strutture e metodi freddi come quello del voto per andare avanti (voti emessi il più delle volte poi da giurie totalmente incompetenti, composte da personaggi presi a caso solo perché godono di una forte visibilità). Anime così sensibili non avrebbero mai accettato di scendere a compromessi con la loro arte, con ciò che sentivano dentro, non gli sarebbe mai interessato fare musica così. Probabilmente avrebbero rinunciato o continuato per conto loro, restando in sordina per sempre. E noi non avremmo mai avuto un Lennon o un De André. Ragazzi magari dotati pure di un eccezionale talento, che il più delle volte vengono presi e messi all’interno di una gogna mediatica, a competere tra loro invece che spinti e incoraggiati ad unire le proprie peculiarità e talenti. Guidati, smussati e plasmati da giudici o insegnati che spesso hanno meno competenza dei ragazzi che giudicano, e una volta che escono da lì rimangono comunque bloccati in quel contesto, forzati a partecipare per contratto, anche in futuro, a ogni apparizione contestuale alla trasmissione stessa. Tutto ciò è davvero triste, e l’antitesi di come dovrebbe essere gestita la musica in un contesto di mercato che tenda a incoraggiare la diversità, la molteplicità e la varietà di stili, generi, contesti ed interpretazioni. Purtroppo, oggi come oggi, sembra che in Italia per la musica esista solo questa strada. Fortunatamente, però, non basta avere un bel viso, una bella voce e passare infinite selezioni in un programma per diventare qualcuno che rimanga impresso nella storia musicale di un paese. Serve avere esperienze che ti logorano dentro, sia in bene che in male, bisogna saper sviluppare una sensibilità che solo l’esperienza e la continua osservazione del mondo che ti circonda può darti. Insomma, bisogna davvero avere qualcosa da dire, avere il caos dentro per generare una stella danzante, come diceva Nietzsche, altrimenti è solo fumo negli occhi, roba preconfezionata per il grande pubblico. De André, Battisti, Mina, dalla, De Gregori, Modugno, eccetera: li vedresti mai uno di loro ad Amici o X-Factor o tutta quella solfa?
Sinceramente? Il problema di questi programmi è che tendono a livellare tutto: tutti sono bravi, tutti sono belli, tutti hanno dato il meglio, e così diventa davvero difficile notare chi emerge realmente dal marasma. Se una cosa diventa alla portata di tutti, inevitabilmente perde valore, diventa meno preziosa. Cosa succede alla musica oggi in Italia? È stata completamente e totalmente incatenata e risicata a puro e mero merchandising fine a se stesso, e gran parte di quello che ascolti dura più o meno 5 anni, nelle migliori delle ipotesi, altrimenti a malapena 2, per finire poi nel dimenticatoio, a parte rari casi. Ci vuole ben altro per convincermi ad ascoltare, appassionarmi ed innamorarmi di un artista se alle spalle non ha vissuto una vita che va a di a dei dogmi comuni del “nasci, mangia, cresci, studia, lavora, segui le tue passioni, muori”. Cosa può trasmettermi un ragazzo che ha vissuto una vita normalissima, passata a giocare con i videogiochi il pomeriggio e a studiare musica la sera, solo perché ha una bella voce e sa cantare. Come può entusiasmarmi? Come può farmi venire i brividi lungo la schiena? Se non riesce a trasmettermi di essere fuori dal normale, nuovo e allo stesso tempo bello? Sono solo riflessioni personali, certo, ma non credo che si amava Jim Morrison, Elvis, Hendrix, Cobain, solo perché erano bravi a cantare o suonare, ma perché trasmettevano attraverso le loro opere tutta la frustrazione, il riscatto e la rivalsa di intere generazioni. Chi oggi, in Italia, potrebbe rappresentare tutto ciò? Provate a cercare un solo nome. E va detto che i tempi sono pieni di difficoltà sociopolitica, con ritorni a comportamenti pseudodittatoriali, mancanza di unione e solidarietà tra le persone, argomenti che hanno sempre dato terreno fertile a chi con la musica riesce a tirare fuori tutto l’ardore che ha dentro e a denunciare. Ma oggi la musica in Italia è incatenata, strumentalizzata e retrocessa al ruolo di puro intrattenimento e veicolo per lo share televisivo. Oggi è tutto controllato dalla televisione, il mercato musicale e quello televisivo sono diventati uno complementare all’altro, e non poteva succedere nulla di peggio. La cosa triste è che questa è una prerogativa soprattutto italiana. Pensate che in paesi come l’Inghilterra, gli USA o la Germania sia lo stesso? Non credo. Li esistono gli stessi programmi, ma sanno distinguere un programma televisivo dal talento che viene dal mondo vero, dal talento di chi ha vissuto esperienze nel mondo reale. Ancora valorizzano la musica che viene dal cuore e non da contaminazioni di alcun tipo, tanto meno legate ad un concetto così patinato come quello della tv. Prima in Italia la televisione si limitava a mettere in luce questi talenti, a renderli visibili ad un pubblico maggiore, ma l’artista era vero, era se stesso, no costruito ad hoc da dinamiche televisive. Provate a farvi un giro per le strade di ogni città di questo paese, troverete migliaia di artisti formidabili che devono presentare il loro talento sui marciapiedi, vendendo i loro lavori per qualche spicciolo, di piccoli club e locali che fanno suonare gruppi di giovani formidabili, ma costretti a rimanere nell’oblio. In Italia attualmente non c’è posto per un mondo che è sempre stato fondamentale per qualsiasi musica in qualsiasi epoca, e cioè l’underground e la preservazione e valorizzazione di esso. Quindi se mi chiedi cosa mi aspetto dalla musica italiana, rispondo: nulla di positivo, se le cose continueranno così. E provo frustrazione per questo, e so di non essere affatto l’unico, perché oggi la musica in Italia è più che altro un surrogato della pubblicità.
Ultima domanda: come mai la musica riesce a salvare ciò che la storia tende a portare nell’oblio?
Come il tempo teme le piramidi, cosi l’oblio teme la musica. Forse perché, a livello evocativo, la musica è lo strumento più forte mai realizzato dall’uomo. O, meglio, dalla natura, visto che la musica esiste anche in natura. Ed è la natura stessa, così come tutto ciò che ci circonda, a esserne plasmato, dalla vibrazione, dal suono. Esiste una teoria sull’universo che dice che l’universo stesso potrebbe essere una membrana che vibra, e noi ci troviamo all’interno di tale vibrazione. La musica stessa è allo stesso tempo storia e presente, è un enciclopedia infinita che racconta le varie fasi della storia umana meglio di qualsiasi libro sia mai stato scritto. Una delle citazioni che preferisco è di Ernst Fischer e recita: “In una società decadente, l’arte, se veritiera, deve anch’essa riflettere il declino. E, a meno che non voglia tradire la propria funzione sociale deve mostrare un mondo in grado di cambiare. E aiutare a cambiarlo”.